CON IL PATROCINIO DELLA REGIONE UMBRIA E DEL COMUNE DI GUALDO TADINO
L’universo femminile è il filo conduttore di questa mostra. E se da curatrice presentare la prima mostra personale di un artista ha sempre il sapore della scommessa, in questo caso la certezza della buona riuscita ha preso il sopravvento sin dall’inizio. Sin dal nostro primo incontro professionale, infatti, avvenuto in occasione della fiera “Künstlerkirtag 2012” a Pöchlarn, in Austria, il talento di Agnese mi era ben chiaro. Andava solo scalfita un po’ la superficie per permetterle di tirar fuori la vera essenza della sua ricerca. E così è stato. Ora, pur mantenendo intatto l’amore -e la conseguente derivazione- per Salvador Dalí, Agnese è finalmente uscita dal guscio ed in punta di piedi, timidamente, si appresta a mettersi in gioco, a svelare la parte più intima di sé e ad affrontare un pubblico più vasto di quella limitata cerchia di persone che fino ad oggi ha avuto modo di seguire il suo lavoro. La scelta della Rocca Flea è stata invece dettata dal fatto di voler sin da subito attribuire un valore “aulico” alla sua ricerca. Non uno spazio “commerciale”, dunque, ma museale, ricco di capolavori, con i quali intraprendere un dialogo costruttivo. Una sorta di passaggio di testimone. Il tema maggiormente ricorrente nelle opere di Agnese è quello della maternità: sognata, sperata, ottenuta, persa. Non è certamente un caso che il titolo di questa mostra rifletta quello di un’opera eseguita nel 1988, in cui il feto compare già sotto forma di idea, di desiderio, quale propaggine della stessa testa/ritratto idealizzato dell’artista. Il dono ricevuto (2012), a sua volta, è la rappresentazione di un sogno che diviene realtà. Come spiega lei stessa «protetti all’interno di un ambiente uterino, avviene il magico incontro fra una donna ed il suo bambino». Nella coeva La culla nel deserto una donna seppellisce un feto. Stavolta è un camaleonte, altro simbolo ricorrente nei suoi lavori, a proteggere la creatura ricavando col suo corpo una sorta di “cavea uterina”, come la stessa artista la descrive. Anche in Un’alba mai vissuta (2012) torna il tema della perdita: l’uovo è crinato ed una goccia di sangue/lacrima ne fuoriesce. A questo punto appare più chiara la scelta curatoriale di dislocare le opere, piuttosto che lungo l’intero percorso museale, in una ristretta area, ovvero in quelle sale in cui ricorre l’iconografia della Vergine col Bambino. Ma la maternità non è certo l’unica tematica sviluppata da Agnese. Anche quella della donna violata ricorre in alcuni lavori. Cappuccetto Rosso (2015) ne è forse l’esempio più ovvio. Qui si apre un’altra parentesi, legata alla figura di Barbie, tuttavia sono certa ci saranno occasioni espositive mirate a meglio sviscerare l’utilizzo tutto personale che Agnese fa dell’icona per eccellenza del gioco femminile tra gli anni ’50 e ’90. Barbie/Cappuccetto Rosso immobile a terra e Ken/lupo cattivo e famelico, jeans ancora sbottonati. In altre installazioni, a concludere il ciclo espositivo, un ulteriore omaggio ad un’altra artista da sempre punto di riferimento nella sua ricerca: Frida Kahlo. Realizzate con un’attenzione al minimo dettaglio, passando dalla pittura alla confezione degli abiti, tali opere ricalcano gli originali dell’artista messicana. Dopo la maternità e la violenza femminile il riconoscimento ad una donna che ha saputo rompere gli schemi, divenendo anch’ella un’icona, ma stavolta non di bellezza, come Barbie, piuttosto di forza, di volontà, di istinto di sopravvivenza. Una donna che ha saputo fare delle sue cicatrici e dei suoi difetti fisici un vessillo di cui andare fiera. È lo stesso richiamo di Opposta al conformismo (2014), in cui il camaleonte, per sua stessa natura, tende ad adattarsi alle situazioni imposte da una società sempre più standardizzata contro cui lotta la figura femminile. Probabilmente quest’ultima è destinata a soccombere, schiacciata e quasi interrata dall’animale, ma la scommessa vale la pena di essere giocata. Adelinda Allegretti
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