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Mother and Child
Mostra collettiva internazionale a tema
Galleria La Pigna, Palazzo Pontificio Maffei Marescotti, Roma
6-20 aprile 2017
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Artisti: Livia Balu (RO-CH), Sergio Boldrin (I), Carla Brandinali (I), Agnese Cabano (I), Venere Chillemi (I), Germano Cilento (I), Salvador Dalí (E), Bernadette Felber (A), Francesca Angelica Floresta (I), Robi Gottlieb-Cahen (LU), Fiona Hernuss (A), Guadalupe Luceño (E), Mauro Martin (I), Silvio Natali (I), Barbara Pinna (I), Natalia Repina (I), Pino Romanò (I), Young-Ae Yi (KOR).
Questa presentata presso la Galleria La Pigna, parte integrante di Palazzo Maffei Marescotti, sede del Vicariato di Roma a due passi da Largo di Torre Argentina, vuole essere una mostra dedicata alla maternità. Dopo aver affrontato la morte a più riprese nei miei progetti curatoriali, ho pensato fosse il momento di affrontare il suo opposto, la vita. E nel suo momento più misterioso, ovvero il concepimento, e nella straordinaria trasformazione fisica che accompagna la crescita del feto all’interno del corpo materno. Ne è derivata un’esposizione molto intima, raccolta, anche perché le opere selezionate sono state davvero poche, prediligendo in tal senso un allestimento che desse modo a ciascuna di esse di dialogare coi visitatori, evitando quindi di accostarle troppo l’una all’altra. In alcuni casi le artiste donna hanno fissato nei loro lavori immagini di amiche, figlie e nipoti, mentre in linea di massima gli uomini sono ricorsi alla rappresentazione della Madonna col Bambino o comunque di altre divinità. Il percorso espositivo, pertanto, si apre con il bellissimo ed imponente olio su tela di Barbara Pinna, Francesca e Diana (2010), in cui se il pancione dell’amica ritratta di profilo cattura inevitabilmente lo sguardo, in seconda battuta anche la tela, posizionata oltre la donna e vista dal retro, incuriosisce lo spettatore. È da leggersi come l’omaggio ad un’amica che, pur svolgendo anch’ella una professione legata al mondo dell’arte, in quel frangente della sua vita ha preferito concentrarsi sulla creatura che portava in grembo, lasciando momentaneamente da parte la carriera professionale. In Maternità (2016) di Francesca Angelica Foresta capita proprio di guardare all’interno del ventre. Nata prendendo le mosse da una ecografia, l’opera rimanda a quel mondo circoscritto che nutre e protegge il bambino ormai ben formato e pronto alla nascita. Chiaro il riferimento del ventre come un mondo a sé, completo e complesso come un intero universo. Anche nell’omonima scultura in creta di Agnese Cabano, datata 2005, si percepisce un forte senso di protezione. Ma stavolta la donna, che assume essa di riflesso la posizione fetale, non ha alcun pancione. La creatura che tanto protegge è esterna al suo corpo. Come una mamma uccello nel nido, qui la donna fisicamente si acciambella attorno ad un uovo, che sembra prendere forma direttamente dai lunghi capelli materni. La mamma, che assume la forma del nido essa stessa, in realtà sta già lasciando al piccolo la possibilità di volare via. Spesso ci si dimentica che i figli non sono oggetti; “appartengono” alle loro mamme, ma il regalo più bello, oltre all’aver donato loro la vita, è dar loro anche la libertà di affrontare l’esistenza e le proprie scelte in autonomia. Mauro Martin, con la sua Neoclassical Portraits. Simona (2017), è lì a ricordarci la bellezza della donna incinta. Non è così che si dice? Che tutte le donne incinta sono bellissime. Forse perché la consapevolezza del feto che cresce all’interno del proprio corpo, pur stravolgendone le proporzioni, dà alla vita delle future mamme un significato diverso, nuovo. Ed una strana luce negli occhi. Qui Simona, in un’ottica decisamente più sensuale rispetto alle opere precedenti, compie l’azione di proteggere il nascituro, mentre la scelta del bianco ricorrente, nelle lenzuola e nella sottoveste, rimandano alla sacralità dell’evento. Quando ho chiesto agli artisti di cimentarsi con questa tematica, ho anche lasciato loro carta bianca. Volevo uno sguardo a tutto tondo sulla maternità, intesa non solo nella sua accezione umana, ma anche animale e vegetale. Di qui la xilografia della coreana Young-Ae Yi, Garden of Thoughts (2011), in cui la cavalla si comporta col suo puledrino esattamente con quella stessa amorevole attenzione che una donna riserva al suo bambino. Invece con Bianca (2016) Sergio Boldrin realizza una sorta di doppio ritratto giocando sul nome della mamma e della nascitura. Margherita sta aspettando la nascita di Bianca, ed è a quest’ultima che evidentemente è dedicata l’opera. La piccola si fa faticosamente strada nel nuovo mondo, come un piccolo bocciolo. Questa iniziale sezione della mostra si chiude con il primo dei due lavori di Robi Gottlieb-Cahen. Entrambi senza titolo ed eseguiti appositamente per il pubblico romano, il lavoro in questione mostra una donna con il ventre prominente e sottolineato dal colore rosso. A ben guardare un volto adulto prende il posto del bambino. Le interpretazioni possono essere molteplici, ma a me piace leggerla come la consapevolezza di far parte di un processo senza tempo, nascita-morte-rinascita. Secondo il pensiero orientale al momento di reincarnarsi l’anima sceglie la famiglia in cui nascere. È questo il tipo di consapevolezza che leggo nel volto di entrambi, mamma e figlio. Nella seconda sezione dell’esposizione viene affrontato il rapporto madre-figlio, laddove il piccolo è ormai venuto alla luce. La nascita (2014) di Natalia Repina è la rappresentazione per antonomasia dell’amore incommensurato con cui una mamma avvolge il suo pargoletto. L’atto è quello dell’allattamento, altro momento di profonda intimità e purezza, sottolineato dagli abiti e dalla stessa natura in fiore. Il piccolo, totalmente indifeso in questa prima fase della sua esistenza, si affida fiducioso all’abbraccio materno. È quanto avviene anche in Tenerezza (2016) di Carla Brandinali; cambia il colore della pelle, ma l’amore che lega mamma e bambino rimane lo stesso. Forse la nudità di entrambi, di contro al gioiello che impreziosisce il collo della precedente donna e l’abito di questa, semplice ma di buon gusto, alludono a condizioni di vita più austere, se non addirittura di estrema povertà e privazione, ma la fiducia del bambino nei confronti della sua mamma è la stessa, tanto da dormire sonni beati. Cambiano la prospettiva e l’area geografica, ma i contenuti no. Di fronte all’opera di Guadalupe Luceño, Mother & Child (2016), ritroviamo lo stesso tipo di abbraccio. Una giovane mamma siriana, costretta a fuggire dalla propria terra e cercare riparo altrove, per sé e per il suo bambino. Non c’è alcuna retorica qui, ma il voler sottolineare che per qualsiasi mamma la sopravvivenza del proprio bambino è l’esigenza primaria. Nell’opera è anche insita la denuncia nei confronti degli assurdi giochi di potere di un’umanità ormai malata, aggiungo io. Ma questa è un’altra storia. Con Livia Balu, invece, si ritorna ad una condizione più serena. I suoi due lavori, eseguiti appositamente per la mostra, giocano sulla sonorità delle parole francesi mère e mer. Nella prima opera Mère et enfant (2017), mamma e figlia si godono una giornata estiva al mare. Come spesso accade, ed accadeva anche nei secoli scorsi, una nascita in famiglia dà all’artista il giusto spunto per inserire i bambini nella sua produzione. In questo caso la figlia e la nipote divengono i soggetti cui dedicare attenzione. E la tenuta molto informale, anzi piuttosto sportiva della giovane madre, allude non solo ad un momento di totale relax, ma anche, come la serenità che le si legge sul volto, un senso di profonde intimità e familiarità che uniscono l’artista ai soggetti ritratti. Nel coevo Mer et enfant l’attenzione si focalizza sulla bimba, allegra e felice dei suoi piccoli passi sulla spiaggia. Il rapporto simbiotico madre-figlia torna ad essere il soggetto della seconda opera selezionata di Robi Gottlieb-Cahen. È evidente che le due figure, pur tenuto conto della differenza di età, risultino quasi perfettamente sovrapponibili: stessa linea della bocca, arcata sopraccigliare, forma del volto. È la scienza che ci ricorda la sopravvivenza della specie attraverso l’eredità dei geni? Quindi la mamma che letteralmente passa le informazioni genetiche alla prole al fine di perpetrare la razza? Questo spiegherebbe la forte somiglianza tra madre e figlia, soprattutto in virtù del fatto che il volto della prima, tagliato a metà, consente proprio di evidenziare la ripetitività dei tratti somatici tra i due individui. Ma è grazie al suggerimento di un’amica (1), chiamata in causa per tradurre questo testo in inglese, che mi si sono spalancate le porte su una seconda ipotesi, di certo più affascinante. Questa è l'idea: in inglese esiste un modo di dire, from womb to tomb, per indicare il legame tra le persone, nel passato come nel presente. E se volessimo guardare a quel sottile ed impalpabile “velo” che copre dalla testa la figura della bambina, sia come una placenta che come un sudario, il detto “dall’utero alla tomba” calzerebbe a pennello (2). Con l’opera di Bernadette Felber, Mum Is Busy. Mexico City (2008), si affronta invece ben altro aspetto. Il bambino, dallo sguardo triste, è in mezzo alla strada. Alle sue spalle due donne con altrettanti piccoli, a creare il contrasto con la sua condizione di bambino solo ed incustodito, ed un piccolo chiosco. La mamma è impegnata a fare altro, recita il titolo, sicuramente a lavorare, ma nel far ciò è costretta a scegliere tra il seguire il suo bambino o l’assicurargli il cibo. In una terza sezione della mostra la visione più tradizionale del concetto di madre e figlio, legata all’aspetto prettamente cristiano, sebbene con chiavi di lettura che esulano da un tracciato ovvio. Nella Maternità con colomba (2004) di Pino Romanò il riferimento alla Passione è facilmente riconoscibile, sia per la presenza dell’uccello che quella del cuscino rosso su cui poggia il Bambino. Ma l’aver collocato la donna sui gradini di un’abitazione che potrebbe essere a noi coeva, unitamente ai suoi tratti somatici più somali ed etiopi che tradizionalmente occidentali, suggeriscono un’idea cristiana di maternità ormai universalmente riconducibile. E che dire dell’opera di Silvio Natali, C’è la mamma qui con te (2015)? La forza di questo dipinto sta tutta nel titolo e nel corto circuito che crea in chi guarda. La tradizione ci ha abituati all’iconografia del compianto sul Cristo morto, della Madonna che accetta più o meno di buon grado la morte del figlio sulla croce. Ma qui il titolo fa venire i brividi. Sembra la frase di una mamma detta ad un bimbo molto piccolo, quasi a rasserenarlo dopo un brutto sogno o una caduta dalla bicicletta. Invece tra le braccia della donna c’è un uomo adulto ormai esangue, che nonostante tutto rimane per lei il suo piccolino da confortare e cullare. Trovo straordinaria l’interpretazione che Fiona Hernuss dà della Madonna col Bambino. In Loveletter to a King (2017), eseguita appositamente per l’occasione, la donna sostiene e mostra al mondo intero il suo piccolo. L’enorme aureola, o piuttosto un sole che illumina la scena lasciando completamente in ombra un intero lato del corpo femminile, nudo e privo di orpelli esattamente come il bambino tra le sue braccia, ottunde completamente alla nostra vista le fattezze fisiognomiche della giovane donna. La mamma totalmente adombrata dal figlio, dal Re, come espressamente ricordato nel titolo. Ma è la cornice a sorprenderci per la seconda volta. È ottenuta con centinaia di mattoncini Lego. Nonostante la sacralità dell’immagine l’aspetto ludico, come tra una qualsiasi mamma col suo piccolo, prende il sopravvento. C’è qualcuno di noi che non abbia giocato con i Lego da piccolo? L’inserimento del mattoncino più famoso al mondo attualizza la sacralità di quell’evento che, da oltre 2000 anni, si perpetua ancora oggi ogni volta che un bimbo viene al mondo. L’opera di Salvador Dalí desunta dalla Biblia Sacra (1964) è stata aggiunta alle opere selezionate per omaggiare lo spazio che ospita la mostra, sede dell’U.C.A.I. (Unione Cattolica Artisti Italiani), realtà fondata da Papa Paolo VI. Vi compare Maria nel momento dell’Annunciazione. Eterea e dolcissima, avvolta da un manto azzurro come il cielo con cui crea un tutt’uno, raffigura la madre per antonomasia. Anche l’opera di Venere Chillemi, Mater Mundi (2010), affronta il concetto di maternità, sebbene fuori da un contesto strettamente religioso. Qui la figura femminile è intesa come archetipo, forza creatrice da cui tutto prende vita. Sotto forma di stele, ieratica, in realtà è un turbinio di energia, come sottolineano le ruote/vortici che ne scandiscono la struttura e da cui sembra fuoriuscire la materia, sotto forma filamentosa, che andrà a generare il mondo come lo conosciamo, in tutte le sue sfaccettature. Ultima opera in mostra, ma certamente tra le più liriche, è Pales (2005) di Germano Cilento. Le linee volutamente arcaiche, primordiali, si fanno portavoce di un’origine altrettanto lontana nella memoria umana, quando l’uomo viveva la sacralità della Natura in maniera più sincera e diretta, riconoscendo immanentemente a boschi, fiumi e raccolti la sua stessa sopravvivenza. Pales è l’antica divinità della pastorizia, atta a proteggere e preservare la ricchezza dell’allevamento al fine di garantire la prosperità e la prosecuzione della specie ai nostri stessi antenati.
Adelinda Allegretti
(1) Francesca Cecchini, che ringrazio. (2) Rimando alla frase pronunciata nel film “Cloud Atlas”: «Our lives are not our own. From womb to tomb, we are bound to others, past and present.»
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