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 (Self)Portraits
 Mostra collettiva internazionale a tema

  La Casa delle Culture del Mondo, Milano
  24 maggio-15 giugno 2014
Con il patrocinio della Provincia di Milano - Settore Cultura

Artisti selezionati: Michael Berger (CH), Gültekin Bilge (TR), Franz Bucher (CH), Agnese Cabano (I), Ian Stuart Campbell (UK), Mariella Capomolla (I), Christine Cézanne-Thauss (A), Teresa Condito (I), Maria Pia Contento (I), Walter Dorsch (D), Marianne Emmenegger (D), Annamaria Gagliardi (I), Cristina Mantisi (I), Pablo Márquez (MEX), Diana Marschall (D), Mauro Martin (I), Silvia Menicagli (I), Patrizio Mugnaini (I), Rosanna Orsini (I), Antoinette Pallesi (F), Siegfried Pichler (D), Yajaira M. Pirela (VE/I), Giacomo Sampieri (I), Daniele Sasson (I), Josefina Temín (MEX), Rita Vitaloni (I), Ersoy Yilmaz (TR)

L’idea di questa mostra è sorta molto tempo fa, ma come spesso accade, almeno a me, in veste di curatrice, l’ho tenuta nel cassetto a maturare, fino a quando si è prospettata la possibilità di organizzare un’ampia rassegna a Los Angeles. Questa di Milano, pertanto, ne è una sorta di “preview”, o meglio un rodaggio. Per lo storico dell’arte quasi non esiste nulla di più ovvio di un autoritratto. Basti pensare a quanti ne ha prodotti il periodo rinascimentale, e poi Rembrandt, van Gogh, Warhol, Freud, i primi che mi vengono in mente. Eppure, cosa incredibile, alcuni artisti mi hanno confessato di non aver mai realizzato un autoritratto. Copiare la propria immagine è quasi un rito d’iniziazione per un artista, o almeno così credevo. Non costa nulla, a differenza di un modello/a, è sempre disponibile, a qualsiasi ora del giorno o della notte, compatibilmente con l’ispirazione creativa di ognuno. Studiare le proporzioni del proprio viso, i difetti (non abbiamo tutti un profilo migliore dell’altro?), vedere e documentare la pelle che si segna col passar del tempo, ruga dopo ruga, aiuta a capire come siamo fatti fisicamente, ma soprattutto chi siamo. Il proprio volto riflesso nello specchio è uno spietato alleato per quanti vogliano conoscersi davvero, scrutarsi dentro, annegare nei propri occhi e riportare a galla quanto di più profondo si nasconde in noi. È stata questa voglia/necessità, che da molto tempo mi accompagna, a far crescere in me l’idea di tale progetto curatoriale.
Al tempo stesso, però, mi incuriosisce molto anche il concetto di semplice ritratto, per certi versi meno impegnativo dal punto di vista interiore, personale, perché guardare gli altri, nel senso letterale del termine – sia ben chiaro, è più facile che scrutare noi stessi. Da qui il titolo, con quell’implicazione dell’(auto)ritratto messa tra parentesi, a voler lasciare al singolo artista la libera scelta nello sviluppo dell’opera. E come sempre, ne sono nati per me interessanti stimoli ed inediti punti di vista.
Fissare sulla tela uno dei momenti più belli della propria esistenza. Come fosse una fotografia ricordo, ma studiata, calibrata, pensata pennellata dopo pennellata, con sapienza, consapevoli del fatto di lasciare ai posteri qualcosa di unico. È questo che spinge Annamaria Gagliardi a realizzare un’opera come La prima figlia (1990)? Il dipinto è l’emblema stesso della maternità, che inevitabilmente segna un punto di non ritorno nella vita. O si è genitori o non lo si è. Se lo si è, perché nasce un figlio, si rimarrà genitori per sempre, più o meno apprensivi, ma da qui certo non si torna indietro. Curioso il fatto che quando chiesi ad Annamaria, ancor prima di questa mostra, una sua foto personale da riportare in fondo ad un catalogo semplicemente per mostrare al pubblico che faccia avessero gli artisti, questi esseri “strani” che la maggior parte delle persone crede vivere in un mondo “altro”, sospeso, lontano dai problemi tangibili (la mia richiesta serviva proprio a dimostrare il contrario, che sono come noi e che vivono tra noi, perdonatemi la battuta), lei mi mandò proprio il particolare dei suoi occhi tratto da quest’opera. Come a dire che la sua vera essenza è questa: lo sguardo fermo, deciso, intenso di una mamma che protegge tra le braccia la sua piccola. Anche Franz Bucher, con orgoglio stavolta paterno, dedica a suo figlio un bellissimo ritratto di dimensioni importanti indagandone solo il volto. Con Alexander Bucher (2013), infatti, egli penetra talmente a fondo che, come una foto digitalizzata si sgretola in migliaia di pixel, la pennellata si scompone in una miriade di puntini, come solo la commistione dell’esperienza post-impressionista con la ricerca di Chuck Close avrebbero potuto produrre. Non so se la piccola Beatrice (2002) di Maria Pia Contento sia anch’essa legata da un vincolo di parentela con l’autrice, ma certo è che anche qui ritorna la volontà di fissare la memoria su un giorno particolare della bimba, elegante nel suo vestitino rosso impreziosito dal candore del colletto e dei polsini. Quasi una moderna versione dei numerosi ritratti di corte che con Goya hanno raggiunto la massima intensità.
Con Bruno alle 0,30 al Duomo di Siena (1979) di Daniele Sasson, invece, veniamo catapultati in una dimensione molto intima. Si coglie perfettamente, sin dal titolo, l’idea del ricordo personale. Due amici che, a notte fonda, tra una sigaretta e una battuta, assaporano la vita, la giovinezza, la libertà. E la sigaretta diventa il nodo focale della composizione, fornendo la fonte di luce necessaria allo scatto fotografico notturno. Zia Teresa (2013) di Mariella Capomolla, giocato sulla monocromia, rimanda ad una vecchia fotografia in bianco e nero, di quelle che molti anni fa si usava farsi scattare da un fotografo professionista. Un ricordo da tramandare ai figli e ai figli dei figli e che ritraesse la figura al meglio delle sue possibilità, con i gioielli di famiglia e l’abito elegante. Un’opera molto intima e delicata. Anche Giorgio (2008) di Patrizio Mugnaini appartiene alla sfera privata. Un amico? Un familiare? Non è dato sapere, ma certo si coglie molta complicità, nei coloratissimi palloncini che si librano in volo e nel volto, sereno e sorridente, di Giorgio. Ma chi è veramente Giorgio? Balzano alla mente i ritratti rinascimentali, in cui gli attributi del mestiere compaiono accanto al protagonista per aiutare chi guarda l’opera a coglierne immediatamente il ruolo nella società: un architetto avrà accanto a sé fogli che riproducono progetti, compasso ed altri strumenti di misurazione; uno scultore avrà quantomeno uno scalpello e magari una statua. Ed un pittore? I pennelli, che qui infatti fuoriescono dalla testa, quale sinonimo anche di creatività, assieme ad una spatola. Quindi Giorgio è un collega?
L’idea di ritratto ufficiale domina nell’opera di Mauro Martin, Impero (2014). Posa frontale, a mezzo busto cui l’antichità imperiale, appunto, ci ha abituati. Anche il drappo rosso rimanda alla stola romana. Qui il ritratto, tuttavia, si fa più intimo, tanto da far immaginare che sotto il drappo la modella sia nuda; la mano, non a caso, svolge più la funzione di trattiene il tessuto che quello di mostrare il gioiello al dito, una sensualità dettata dall’esigenza di tenere celato ciò che maliziosamente viene negato allo sguardo. Ancora un ritratto ufficiale, ma con intento completamente diverso, è quello realizzato da Ian Stuart Campbell che rimanda l’immagine, orgogliosa nell’abito tradizionale, di uno Scottish Pipe Major (2014). Lo sfoggio dello strumento, la ieraticità della posa ed al contempo la serenità del volto contribuiscono a trasmettere l’amore per la cornamusa e la totale dedizione che questa comporta.
Con Giacomo Sampieri l’attenzione si sposta verso la quotidianità. Vivina (2012) è una signora matura, lontana da qualsivoglia dimensione ufficiale e che veste abiti pratici, pur mantenendo una innata eleganza nei modi. D’altro canto la scelta di focalizzare l’attenzione sul volto, tralasciando volutamente il contesto ambientale e sociale, fa sì che lo spettatore si senta empaticamente attratto da uno sguardo tanto chiaro e sincero, abbattendo in tal modo ogni barriera emotiva. Anche nelle opere di Diana Marschall i personaggi ritratti appartengono perlopiù alla sfera delle persone comuni tanto che, ad eccezione di Gabriel (2000), elegante e distinto, a suo agio in abito scuro, i nomi propri non compaiono affatto nei titoli delle opere. Ciò fa intuire che si tratti di persone incontrate per pochi minuti al giorno durante un soggiorno in albergo, come in Frühstück i.d. WG (2000), o addirittura incrociate per un attimo sulla via, come la contadina di Bäuerin von Teno Alto (2009), la signora che intreccia la paglia per trasformarla in tipici cesti di Korbflechterin (2001) o il cuoco di Koch von San Marcos (2013). Diverso il discorso per Norah Jones (2008), cantante famosa ritratta in una posa ufficiale durante un concerto. Sulla scia dei personaggi famosi si colloca anche l’intera produzione di Ersoy Yilmaz, sebbene qui presente con una sola opera, Titanic (2013), recentemente esposta in occasione della mostra “Mare dentro”, presso il Mu.MA Galata Museo del Mare di Genova. L’incredibile virtuosismo tecnico consente, nonostante la complessa lavorazione della ceramica, di riconoscere perfettamente i tratti somatici di Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, così come compaiono in una delle scene più famose del film.
Anche Agnese Cabano sceglie di raffigurare un personaggio famoso, ma stavolta si tratta dell’artista messicana per antonomasia. L’opera infatti si intitola Omaggio a Frida Kahlo (2014). Ritratta a letto, nell’atto di autoritrarsi nel celebre dipinto La colonna spezzata (1944), la Frida di Agnese è una Barbie, la più bella e più bionda tra tutte le bambole, vero e proprio sex symbol. Quasi un controsenso, se si pensa a quel corpo martoriato dalla malattia prima, e da un incidente poi. Inoltre, incombente su quel letto a castello, la stessa Frida in versione ormai scheletrica. Un ritratto interiore che si fa presagio di morte.
Nelle opere di Gültekin Bilge si fa strada il concetto di universalità della razza umana. In Faces of the World (2011) i due profili, posti ai lati opposti della superficie lignea, stanno a simboleggiare il senso di appartenenza di tutti noi alla medesima condizione umana. Sono volti atavici, antichi, che ricordano gli indiani d’America e gli Inca. I secoli passano, il mondo continua a girare, di qui la forma circolare dell’opera, eppure i problemi percepiti dagli uomini sono sempre gli stessi, basati principalmente sul rapporto uomo-donna, società e civiltà in conflitto tra loro, contrapposizione tra benessere personale e collettivo. Eppure, sebbene diversi, quei volti si somigliano più di quanto si possa pensare e la speranza che la radice comune prenda il sopravvento sugli interessi di pochi sembra essere la nostra unica possibilità di perpetrare la razza. Special face (2009), invece, ci fa riflettere sui mille volti della natura umana. La miriade di sfaccettature genera un volto indefinito perché in continuo movimento e trasformazione ed obbliga lo spettatore a ricercare continuamente la giusta prospettiva.
L’opera fotografica di Pablo Márquez, dal titolo Portrait 2 (2014), tocca ancora tangenzialmente il concetto di universalità, sebbene poi si sviluppi verso altri lidi. Due giovani, un uomo e una donna, un’anziana, un bufalo all’angolo di una strada a New York City. Ovviamente, al di là della differenza di generi (uomo/donna/animale) e di età, l’immagine risulta estraniante per la mansuetudine del bufalo, accarezzato come fosse un cagnolino, docile e ben disposto alle attenzioni dei passanti ed agli inevitabili scatti fotografici. Non si tratta di un fotomontaggio, tanto che l’evento è stato anche videoripreso dall’artista. Perché risultiamo tanto incuriositi da questa fotografia? Perché il nostro cervello, la nostra razionalità, ci dicono che qualcosa non collima. Scattano quindi mille quesiti sull’idea di percezione visiva: è tutto vero ciò che vediamo? Possiamo sempre fidarci di ciò che i nostri occhi colgono intorno a noi?
Walter Dorsch indaga il rapporto artista/modella in tre delle opere esposte, tutte datate 2014: Beauties and beasts, The artist e The Muse. In tutti tali casi artista e modella sono ritratti davanti a terzi lavori dello stesso Dorsch e la modificazione digitale dell’immagine, soprattutto nel viraggio cromatico, contribuisce a cambiare l’espressione dei volti, e conseguentemente la nostra percezione. Inoltre il fatto stesso di rivolgersi alla modella col termine Musa, a ricordarne l’origine divina, perché figlia di Zeus e guidata da Apollo, comporta il riconoscimento dell’ispirazione quale momento imprescindibile della creazione artistica. Se poi la Musa è anche compagna di vita, moglie e madre, allora l’Amore diventa l’unico motore in grado di muovere il mondo (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”, come scriveva Dante). Le altre due opere selezionate, Masken 1 e 2, entrambe del 2014, introducono invece un ulteriore spunto di riflessione, quello del mascheramento. Il volto reale celato dietro una maschera rigida, finta, è sinonimo nella ricerca di Dorsch della falsità della politica.
Stiamo abbandonando la sezione dedicata al ritratto per immergerci in quella dell’autoritratto. Come si vedono gli artisti? E soprattutto: ancora si ritraggono con gli attributi che, agli occhi del mondo, devono far capire, come un vessillo, che sono pittori, scultori (qui si aprirebbe ancora un altro capitolo, che non affronterò in questa sede, riguardo le innumerevoli facce del fare artistico. Anche solo fino a due secoli fa ci saremmo limitati a tre categorie -pittori, scultori, architetti- mentre oggi la lista si allungherebbe -installatori, video maker, fotografi, computergrafici…)? Curioso notare che soltanto uno degli artisti selezionati si è autoritratto mettendo in evidenza gli strumenti del proprio mestiere. Patrizio Mugnaini, in Testa di artista (autoritratto) (2012) fa esattamente ciò cui abbiamo appena accennato. Dalla sua testa fuoriescono tubetti di colori, pennello, matita, libri e persino lampadine accese (l’idea, l’input creativo). Essere artista, nel 2014, non significa solo usare il pennello o lo scalpello, ma una miriade di stimoli e strumenti, molti dei quali legati alla tecnologia.
Christine Cézanne-Thauss, nel suo Selfportrait (2012), rimanda un’immagine solare, anche alquanto fumettistica, con i capelli e le sopracciglia verdi. Un ritratto che ispira simpatia e volontà di comunicare con lo spettatore. Vengono completamente azzerati i canoni di ufficialità, tanto che anche un bambino ne sarebbe attratto. Molto colloquiale anche l’immagine che Marianne Emmenegger rimanda di sé. Semplicemente Marianne (2014); questo il titolo dell’opera, in cui il suo faccino sorridente appare e scompare in un vortice di simpatia, tra onde/dune di un azzurro che si confonde tra cielo e mare, ed un albero verde, quindi vivo e rigoglioso, una sorta di Albero della Vita (?) al centro. Ritratto bostoniano (2013) di Mariella Capomolla ci mostra l’artista in un momento di privato relax in una giornata calda ed assolata.
Con Cristina Mantisi si fa strada l’idea del doppio, altro pensiero che certamente svilupperò nelle successive tappe del progetto curatoriale: lo stare davanti allo specchio o comunque interrogarsi sul proprio lato nascosto. Io ed io (Me and me) (2014), la stessa immagine divisa in due. Colorata e solare la prima, grigia, quasi pietrificata l’altra. Qual è la vera Cristina? Tutte e due, ovviamente. Sebbene in forma apparentemente meno evidente, anche l’autoritratto di Siegfried Pichler, (Self)Portrait (2014), col guizzo scuro, quasi pennellate impazzite che serpeggiano per poi esplodere proprio al centro della tela, a coprire parte del volto, riflette l’idea del lato oscuro che attraversa la nostra coscienza. L’opera di Rita Vitaloni, Sfratto. Tutti i colori del buio (2014), è parte di un progetto molto ampio che l’artista porta avanti da anni, dal titolo Il colore degli sfrattati. Uno sfratto subito è l’evento attorno cui ruota la vita dell’artista e della sua famiglia, da cui dipendono e derivano tutta una serie di ulteriori drammatici accadimenti, tra cui la morte della madre. Un intero ciclo di forte denuncia, ma che esprime anche un forte coraggio. Non a caso il buio attorno a sé è paralizzante, eppure il suo volto rimane rischiarato da un’esplosione di colori. Rosanna Orsini, in The trap (2009), imprigiona il volto “trasfigurato dalla luce (…) in una delle tante maglie reali o virtuali del mondo”, come lei stessa afferma. L’utilizzo della resina rende il nero lucido, quasi accecante, mentre il colore acido del volto contribuisce a trasmettere una malsano senso di chiusura, oppressione, asfissia.
In Io, me, me stessa (2013) di Silvia Menicagli il solo volto campeggia al centro della superficie. Tutto attorno si intravedono un cuore spezzato, forse una rosa, deformati da gocciolature di colore. È ancora una volta la vita, con le infinite e molteplici esperienze che ci mette davanti, a segnare il nostro essere, fisicamente (ne portiamo le tracce più evidenti nel volto) ed emotivamente. Con Yajaira M. Pirela, invece, l’attenzione si sposta altrove. IO la parte di me che non cambierà mai (2014) non descrive più la fisicità, anzi ne offusca i contorni, lasciando spazio a segni ora più grevi, incisivi, aspri, ora più leggeri. Lo stesso colore fra grigio e monocromatico, si fa via via più caldo e sfumato, lieve. Invecchieremo, il nostro corpo sarà sempre più segnato dal tempo, ma la vera essenza, anch’essa segnata dalle esperienze vissute, rimane altrove.
L’installazione di Teresa Condito, Figura non figura (2014), come lei stessa spiega, è costituita da una base rettangolare su cui si dispiegano una serie di forme ed oggetti, tra cui ellissi colorate concentriche, a simboleggiare i diversi percorsi dell’esistenza, all’interno delle quali sono posizionati dei barattoli di diverse grandezze. Alcuni sono pieni e chiusi (le esperienze vissute, incancellabili), altri sono aperti e pieni a metà (gli eventi correnti), altri ancora sono aperti e vuoti (in attesa degli eventi futuri). A determinare le esperienze due soli tipi di esperienze, dettate da amore e dolore; le lettere “A” e “D” contenute nei barattoli sono le uniche possibili, perché “ non vi è posto per altro”.
L’opera di Michael Berger, Midnight portrait (Self-portrait) (2010), richiederà l’interazione del pubblico. L’idea che tutto scorre (Eraclito scriveva “Panta rei”), si trasforma, non è mai uguale a se stesso, è alla base della ricerca artistica di Berger. Anche il ritratto a mezzo busto, quindi, lontano da ogni fissità, è stato pensato per cambiare continuamente aspetto, spostando i singoli pezzi come parte di un puzzle che si rinnova ad ogni intervento.
Voglio chiudere questo excursus con Josefina Temín e la sua opera dal titolo Josefina (2014), perché la ritengo un bell’insegnamento di vita, con la sua silhouette tutta aggrovigliata. Quanto sappiamo essere complicati a volte! Ingarbugliati, incasinati, ma assolutamente unici! E nonostante tanto arruffamento, siamo ancora capaci di librare, leggeri, sottili, liberi.
Adelinda Allegretti
Allegati
 Invito    Catalogo  
Opere
Agnese Cabano, Omaggio a Frida Kahlo (2014), legno, olio su gesso, tessuto Valentino, Barbie d'epoca (Ponytail 1962), cm 17,5x38,5x43 Annamaria Gagliardi, La prima figlia (1990), olio su tela, cm 71x110 Christine Cézanne-Thauss, Selfportrait (2012), acrilico su tela, cm 60x60
Cristina Mantisi, Io ed io (Me and me) (2014), arte digitale su tela, cm 70x50 Daniele Sasson, Con Bruno alle 0,30 al Duomo di Siena (1979), fotografia su tela, cm 50x50 Diana Marschall, Bäuerin von Teno Alto (2009), acrilico su tela, cm 90x80
Diana Marschall, Frühstück i.d. WG (2000), acrilico su tela, cm 105x130 Diana Marschall, Gabriel (2000), acrilico su tela, cm 110x130 Diana Marschall, Koch von San Marcos (2013), acrilico su tela, cm 60x65
Diana Marschall, Korbflechterin (2001), acrilico su tela, cm 70x105 Diana Marschall, Norah Jones (2008), acrilico su tela, cm 80x105 Ersoy Yilmaz, Titanic (2013), ceramica dipinta, diametro cm 40
Franz Bucher, Alexander Bucher (2013), acrilico su tela, cm 100x120 Gültekin Bilge, Faces of the World (2011), tecnica mista su legno intagliato, cm 65x70 Gültekin Bilge, Special face (2009), tecnica mista su cartone, cm 75x93
Giacomo Sampieri, Vivina (2012), olio su tela, cm 70x80 Ian Stuart Campbell, Scottish Pipe Major, (2014), inchiostro su carta Fabriano, cm 28x50 Josefina Temín, Josefina (2014), carta e legno, cm 19x23x20
Marianne Emmenegger, Marianne (2014), tecnica mista su tela, cm 60x60 Maria Pia Contento, Beatrice (2002), olio su tela, cm 80x120 Mariella Capomolla, Autoritratto bostoniano (2013), olio su tela, cm 40x50
Mariella Capomolla, Zia Teresa (2013), acrilico su tela, cm 40x50 Mauro Martin, Impero (2014), tecnica mista su tela, cm 50x50 Michael Berger, Midnight portrait (Self-portrait) (2010), 50 pezzi componibili ad acrilico su tela, versione scomposta
Pablo Márquez, Portrait 2 (2014), fotografia su carta, cm 28x46 Patrizio Mugnaini, Giorgio (2008), olio su tela, cm 40x50 Patrizio Mugnaini, Testa di artista (autoritratto) (2012), olio su tela, cm 40x50
Rita Vitaloni, Sfratto. Tutti i colori del buio (2014), tecnica mista su tela, cm 60x40 Rosanna Orsini, The trap (2009), tecnica mista su tela, cm 50x50 Siegfried Pichler, (Self)Portrait (2014), acrilico su tela, cm 80x100
Silvia Menicagli, Io, me, me stessa (2013), tecnica mista su tela, cm 60x60 Teresa Condito, Figura non figura (2014), tela, acrilici, vetro, polistirolo, plexiglass, cm 100x200 Walter Dorsch, Beauties and Beasts (2014), fotografia su alluminio, cm 60x80
Walter Dorsch, Masken 1 (2014), fotografia su alluminio, cm 60x45 Walter Dorsch, Masken 2 (2014), fotografia su alluminio, cm 60x40 Walter Dorsch, The artist (2014), fotografia su alluminio, cm 60x60
Walter Dorsch, The Muse (2014), fotografia su alluminio, cm 60x60 Yajaira M. Pirela, IO la parte di me che non cambierà mai (2014), olio su tela, cm 60x70
Inaugurazione

































































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Adelinda Allegretti: storico dell'Arte, giornalista, curator di eventi espositivi - CREDITS