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Paolo Dell'Aiuto. I vizi capitali ed altri vetri
Mostra personale
Galleria Bianca Maria Rizzi, Milano
9-30 settembre 2003
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A partire dal Medioevo, e per tutta la durata del Rinascimento, la contrapposizione tra vizi e Virtù ha ispirato grandi cicli pittorici, favorita anche da un’iconografia di immediata lettura. E se Hieronymus Bosch, nello straordinario olio su tavola conservato al Prado, ha lasciato una delle più vivide ed estrose interpretazioni dei sette vizi capitali, è parimenti impossibile dimenticarne la descrizione dantesca nell’Inferno, in cui gli “incontinenti” sono chiamati ad espiare le loro colpe tra il secondo ed il quinto cerchio della “città dolente”. Di contro, l’arte contemporanea difficilmente si è confrontata con un tema tanto impegnativo e che, soprattutto, darebbe immediatamente vita ad un paragone con sì illustri predecessori. Eppure Paolo Dell’Aiuto, forte di un’impronta stilistica del tutto personale che annulla la figura umana sostituendola con un “involucro” che però ne mantiene inalterati limiti e qualità, torna ad affrontare tale tematica. Ed è così che le sue bottiglie, stagliate contro un orizzonte che di volta in volta contribuisce con le giuste sfumature -più o meno violente- e soprattutto con la presenza/assenza di nubi, a dare all’immagine una chiave di lettura, si fanno mute interpreti degli errori umani. Nella Lussuria è una lucertola, riprendendo la ben nota tradizione iconografica, ad aggrapparsi in maniera lasciva al corpo della bottiglia, mentre il cielo, non a caso tinto di rosso, il colore da sempre attribuito alla passione, sembra prendere fuoco. La Gola invece lascia intravedere un foro verso il fondo della bottiglia, ad indicare la mancata sensazione di sazietà di chi divora ed ingurgita cibo. Per quanto liquido si possa versare, infatti, il contenitore rimarrà sempre vuoto. A rendere l’idea dell’Avarizia a Dell’Aiuto è sufficiente un tappo. È questa infatti l’unica bottiglia chiusa, che non permette a qualsivoglia sostanza né di entrare né di uscire, a ricordare che gli avari tengono tutto per sé. L’Ira assume l’aspetto di una bottiglia infranta sotto l’azione di un fulmine, che altresì squarcia un cielo plumbeo, minaccioso, solcato da bagliori rosso-sangue. È la collera che irrompe in uno sfogo immediato e violento e che si riversa, prima ancora che verso gli altri, verso se stessi. Anche l’Invidia mostra una bottiglia rotta, ma rispetto alla precedente qui la crinatura non è frutto di un’implosione che, salendo dal basso, irrompe furiosa. Al contrario, la rottura è silenziosa, procede per gradi, quasi di soppiatto, perché l’invidioso è roso dal successo altrui e cova una rabbia che non esploderà mai, ma che continuerà a corroderne le membra. La Superbia, che troneggia al centro del quadro, sicura e maestosa, mostra un collo insolitamente ricoperto di cenere. È quanto accade a chi, evidentemente troppo preso dal guardare gli altri dall’alto della sua presunta superiorità, non si accorge di essere lui stesso “sporco”. Ultima, l’Accidia. Il groviglio senza vita dei rami secchi sembra attanagliare la bottiglia, nel chiaro tentativo di evidenziare negli accidiosi, nei torpidi o pigri che dir si voglia, l’incapacità di reagire attivamente a quanto di negativo li circonda. Torino, 18 novembre 2002
Adelinda Allegretti
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