È la purezza la vera costante, la protagonista assoluta di questo ciclo di lavori di Francesco Seccia. Purezza che si esplica in primis nella scelta del taglio fotografico, che lascia volutamente fuori inquadratura intere sezioni di corpo e, di contro, ne focalizza l’attenzione su limitate porzioni. Questo gli consente di ricercare un equilibrio di forme, nonché di pieni e di vuoti, grazie anche all’utilizzo di uno sfondo nero, che non concede allo spettatore la minima possibilità di fuga, costringendolo anzi a focalizzare la sua attenzione sulla fisicità del soggetto. Difficile non cogliere un’assonanza con i ritratti fiamminghi quattrocenteschi, in cui il personaggio campeggia a mezzo busto (ancora una volta una porzione di corpo) su sfondi scuri che annullano la profondità spaziale. A quella formale si va ad aggiungere la purezza di contenuti. Contrariamente a quanto si potrebbe desumere da una visione superficiale dei suoi lavori, qui il nudo non ha nulla a che fare col concetto di voyeurismo. Il corpo nudo, ormai sublimato e ripulito di ogni orpello, riflette la perfezione del creato e la donna, unico soggetto dei suoi dipinti, diviene in particolare sinonimo di rinascita a nuova vita. La donna nuda, purificata, diviene un’icona, simbolo di Bellezza Suprema. È così che la tradizione iconografica occidentale rappresenta sia la Verità che la Venere Celeste. Ma Seccia va ancora oltre, e pur strizzando l’occhio alla tradizione, riveste le sue icone di attualità, facendone da un lato una sorta di portabandiera contro l’aggressività e la volgarità dei mass-media, e dall’altro un elemento di azzeramento delle diversità sociali. Le sue figure, di una bellezza assoluta che supera le barriere temporali, riconsegnano dignità alla figura muliebre. Contrariamente alla società, che ci vorrebbe fisicamente stereotipate secondo modelli riflessi da televisione e riviste patinate, ma anche classificate da status symbol griffati, Seccia propone una donna che recupera la sua bellezza interiore, la sua essenza femminea scevra da mode, da condizionamenti e da ruoli sociali. È un’esortazione alla trasmutazione: da oggetto a soggetto, carne – di qui il titolo della mostra – a Bellezza svelata.
Adelinda Allegretti
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