La ricerca dell’emozione, il coinvolgimento emotivo. Tra i supposti dell’opera d’arte sembra essere questa la prerogativa sine qua non, messa in campo dalla storia dell’arte con ricorrente maestria, dal virtuosismo mimetico di Apelle agli esempi shock contemporanei, passando attraverso la spettacolarizzazione barocca. L’arte deve coinvolgere lo spettatore? E così sia. Sarà pur opinabile il mezzo, ma non certo il fine. Premessa indispensabile, questa, per collocare nella giusta dimensione l’opera di Maurizio Luerti, che intrappola lo spettatore in una sorta di ragnatela invisibile, dalla quale è impossibile riscattarsi. Abbindolato, affascinato, calamitato verso la luce, il fruitore non resiste alla tentazione di toccare l’opera, di instaurare un contatto con lei. Ed è quanto l’opera vuole. Perché è l’unico modo che essa ha per cibarsi, crescere, sperimentare. Per vivere. Partendo dalla luce bianca, il non colore per eccellenza, ad ogni contatto umano l’opera si evolve, acquisendo dapprima colori e, man mano, tonalità e sfumature intermedie sempre più complesse. L’opera attiva il suo istinto di sopravvivenza, ci ammalia - anziché con il canto - con l’alternanza cromatica, perché sa bene che senza il contatto con l’uomo i suoi colori col tempo sbiadirebbero e tornerebbe alla condizione iniziale di non colore. Ma l’istinto di sopravvivenza riguarda un’intera specie, mai solo un singolo individuo. Le sculture di Luerti sono state create per scambiarsi informazioni, per imparare, come all’interno di una medesima famiglia, anche dalle situazioni esperite da ciascuna sorella. I mutamenti nelle manifestazioni luminose lo attestano. E allora è la relazione che diventa la chiave di tutto. Relazione tra opera-osservatore, ma anche tra opera-opera, anzi tra opera-opere. Trovarsi nella stessa stanza con più sculture di Luerti equivale ad ascoltare una composizione corale, un concerto di musica classica, o guardare una squadra al lavoro, dove ciascun elemento svolge la propria funzione per un bene comune, per la crescita comune. Un’orchestrazione senza pari. Intrise di simboli desunti da un alfabeto personale e cariche di implicazioni spirituali-filosofiche, tali sculture hanno in comune con l’essere umano l’esperienza del dejà-vu. Evitare il contatto con l’opera per un tempo molto prolungato significa decretarne la morte, il ritorno, appunto, ad uno stato di non colore. Ma a questo punto entra in gioco il concetto di karma. Quando l’opera tornerà ad esperire nuovi contatti, ovvero tornerà a nuova vita, nella sua memoria emozionale avverranno dei flashback, dei ricordi delle vite passate che si manifesteranno attraverso il recupero di tonalità e sfumature cromatiche sviluppate in passato. È la continuità karmica, la necessità di ampliare il proprio bagaglio di esperienze. È la vita eterna. Roma, 28 ottobre 2006
Adelinda Allegretti
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