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Eugenio Volpi. Moby Dick o il capodoglio
Mostra personale
Studio Laboratorio di Anna Virando, Torino
1-17 marzo 2001
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Non poteva passare inosservato il centocinquantesimo anniversario della pubblicazione di Moby Dick, uno dei capisaldi della lettaratura di ogni tempo, soprattutto per chi, come Eugenio Volpi, ha dedicato tanta passione ed energia ad un lavoro fotografico di sì ampio respiro. Una cinquantina di scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, non per illustrare, ma per interpretare alcuni passi del romanzo. Ciascuna immagine, pertanto, va sì letta alla luce della corrispettiva citazione, ma compiremmo un errore di superficialità se volessimo vedere nella prima una totale e pedissequa trasposizione della seconda. Allo stesso modo il soggetto ritratto deve diventare fine a se stesso e svincolarsi dalla sua originaria funzione o significato. Soltanto dopo aver compiuto questo processo mentale ogni fotografia acquista una sua specifica valenza. Ecco allora che in Chiamatemi Ishmael la scultura, da parte integrante della struttura muraria, diviene "urlo universale", simbolo supremo dell'incomunicabilità e del vuoto che avvolge l'uomo e che, per dirla alla Melville, ora costringe Catone a buttarsi sulla spada ora Ismaele ad imbarcarsi sul Pequod. E' proprio di Moby Dick, descritto in più parti del romanzo con dovizia di particolari, che Volpi dà l'immagine più suggestiva: lungi dal restituirci il capodoglio nella sua straordinaria mole, egli ce ne lascia intuire la presenza, e soprattutto la possanza, attraverso la lunga scia lattiginosa tracciata nell'azzurro cupo del mare. Allo stesso modo la sua bianchezza, che tanto terrorizza Ismaele, è evocata dal marmoreo candore di una scultura funebre. Ne Il reietto è la solitudine la vera protagonista. Nella silhouette nera, appartata oltre la linea di demarcazione, si cela la figura di Pip, negretto pauroso ed impacciato che durante la caccia finisce in mare e rischia di compromettere il lavoro dell'intero equipaggio. Isolato dal gruppo, anche il volatile sembra espiare la sua colpa. E' impressionante il modo in cui immagini come questa appaiono tanto prossime al romanzo, eppure, come sottolinea l'autore, nessuna di esse ha subito modifiche di alcun genere. "La fotografia è lì, bisogna soltanto saperla vedere", afferma Volpi. Lo strumento uncinato di Cisterne e secchi vuole essere, oltre che un chiaro rferimento a "la grande abilità ostetrica di Queequeg", che salva Tashtego da morte sicura, un omaggio alla professione dell'autore. Un ulteriore aspetto di questo progetto fotografico necessita di essere sottolineato. Esso ha richiesto un lungo periodo di gestazione, durante il quale la raccolta delle immagini è avvenuta senza il minimo rispetto di un criterio cronologico, ma che a lavoro ultimato ha dato forma ad una ricerca compiuta, che adesso fa sfoggio della complessità delle sue intenzioni. Quali intenzioni? Quelle di dare a Moby Dick, che la critica letteraria ha identificato ora come quel misterioso strumento di Dio, di cui bisogna accettare doni e proibizioni, ora con l'incarnazione del male metafisico, ora con la forza benigna e malvagia, ora vulnerabile ed immortale, un volto. Torino, gennaio 2001
Adelinda Allegretti
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