|
|
Terra!
Mostra collettiva internazionale
Galleria Angelica, Via di Sant'Agostino 11, Roma
3-13 marzo 2023
|
|
|
Con il patrocinio del Forum Austriaco di Cultura Roma, dell'Ufficio Culturale dell’Ambasciata di Spagna in Italia e dell'Accademia d'Ungheria Roma
Artisti selezionati: Chantal Andrea Barthélémy (F), Michael Berger (D), Anthony Gerald Binns (UK), Alessandra Borzacchini (I), Olga Buneeva (RUS/I), Luigi Stefano Cannelli (I), Paola Ceci (I), Marc Chagall (RUS/F), Gabriele Ercoli (I), Bernadette Felber (A), Valentín Gallego Gallardo (E), Tibor Hargitai (CA/HU), Keith Haring (USA), Marion Jungeblut (D), Lorella Lion (I), Antonella Mezzani (I), Roberta Minaccioni (I), Christina Mitterhuber (A), Fernando Montagner (I), Joy Moore (UK), Antonella Nannicini (I), Catherine Perehudoff Fowler (CA), Marco Pierini (I), Mario Rossi (I), Ciro Saetti (I), Patrizia A. Salles (USA), Fiorenzo Sasia (I), Marc Schmitz (D), Antonella Serratore (I), Gregg Simpson (CA), Josefina Temín (MEX), Violino Mantieco (I), Ersoy Yilmaz (TR).
Dopo Floating in the Water, presso ArteSpazioTempo di Venezia, e Fuoco cammina con me, alla CAM Factory del CAM_Casoria Contemporary Art Museum, entrambe del 2022, la mostra “Terra!” continua a dar forma al progetto curatoriale di più ampio respiro con cui intendo indagare i 4 elementi, tra punti di contatto e divergenze. Ho chiesto agli artisti di lavorare sul loro concetto di terra, e come sempre succede le sfaccettature sono state molteplici e in alcuni casi davvero sorprendenti. Io stessa quando ho pensato al titolo ho immaginato un galeone sopraffatto dalle onde ed una voce proveniente dalla coffa, dall’alto dell’albero maestro: «Terra!», a dare speranza al resto dell’equipaggio. Ma è stato incredibilmente interessante per me assistere, man mano che le selezioni proseguivano, ai molteplici significati ed interpretazioni dati a questa parola. Terra è il pianeta che viviamo ogni giorno, con le sue bellezze e i suoi limiti, ora un Eden incontaminato, ora luogo di scontri; è una Madre protettiva e amorevole, ma anche una realtà da proteggere; è un punto esatto sulla cartina, raggiungibile seguendo precise coordinate, ma anche luogo mentale o concettuale. Come già accaduto in occasione della mostra al CAM_, anche in questo caso ho scelto di far iniziare il percorso espositivo con il polittico 4 ELEMENTS? (2022) dell'ungherese-canadese Tibor Hargitai, in cui gli elementi sono evocati dalla parola e dal relativo colore convenzionale, ovvero il blu per l’acqua, il rosso per il fuoco e il giallo per l’aria, laddove la terra non è altro che l’unione dei primi tre. Ed ancora, sempre ricollegandomi alla passata mostra, Paz y libertad para Ucrania (2022) dello spagnolo Valentín Gallego Gallardo, perché il fuoco delle bombe va sempre a braccetto con la distruzione del territorio. E non solo. L’aspetto interessante che mi preme sottolineare è che, avendo lasciato a ciascun artista la libertà di dare forma alla propria idea di terra, ha prevalso un senso di fiducia, di amore, di riconoscenza. Sono state evidenziate sì le criticità di un sistema-Terra sempre più affaticato dallo sfruttamento umano, ma è la sua bellezza ad aver preso il sopravvento. Da qui anche la scelta di accompagnare il visitatore attraverso un percorso “salvifico”, dalla guerra e la conquista, intese come il più becero atto umano, fino alla magnificenza del paesaggio terrestre. Per questo motivo, proprio sulla scia di voglia di potere e prevaricazione, d’altronde vecchia come il Mondo, tra i primi lavori si incontrano quelli dell’artista tedesco Michael Berger, sebbene con un senso più ludico e storico che distruttivo: Monument I - Rome (2007), Monument II - China Monument e Monument III - The Golden Horde, entrambe del 2012, immaginano la terra come luogo di conquista e campo di battaglia. Poi si passa all’azione fratricida e alla distruzione ambientale, che diventano un tutt’uno nella bellissima serie di 20 litografie di Keith Haring dal titolo Planet Earth (1990), di cui 5 presenti in mostra. Un pianeta pugnalato, uomini che annegano, altri incapaci di controllare armi che letteralmente gli sfuggono dalle mani. Ricorda qualcosa? Solitudine (2010) di Antonella Serratore e La ciotola d’acqua (2018) di Fernando Montagner, raccontano di un pianeta vivo, che respira e si nutre, ma mettono in guardia sul fatto che non ci sarà vita per l’uomo in una terra arida. Siamo arrivati al punto di svolta, perché vivere in simbiosi con l’ambiente che ci circonda è la vera soluzione, dettata da un rispetto fatto sì di azioni, ma anche di intenzioni: Preghiera (1991) di Fiorenzo Sasia riporta a quell’atto di unione non solo con la terra, ma con l’intero creato. È la connessione col divino l’unica via, ma come insegnano molte culture, filosofie e religioni, la conditio sine qua non è la conoscenza di sé stessi. E allora talvolta scavare nel nostro profondo può essere più complicato che vangare la terra, decisamente più faticoso e penoso, ma fondamentale. FrattoNero (2019) di Gabriele Ercoli e Terra e fuoco (2022) di Violino Mantieco scavano in profondità, ancora più giù, tra la melma e la polvere sedimentata, alla ricerca di quel vuoto che è esattamente l’opposto del nulla. Non mancano in mostra visioni di paesaggi incontaminati, talvolta riproducenti luoghi reali, talaltra mentali o interiori. Frosted Landscape e The Forest in Spring della canadese Catherine Perehudoff Fowler, entrambi del 2019, così come Wadi Rum II. Jordan (2022), dell’austriaca Bernadette Felber, o The Pier (2013) e Snow Tree (2015) del turco Ersoy Yilmaz, riportano ad una realtà vera, calpestata, ammirata con gli occhi e riprodotta come per non dimenticarne la bellezza. Nei lavori di Ciro Saetti boschi, laghi e cascate diventano soggetti da portare sempre con sé. La serie iPhone (2022) trasforma il telefono mobile in un’opera d’arte. A ciascuno la propria interpretazione. Ci accontentiamo di immagini virtuali, sostituendo l’esperienza diretta con riproduzioni mordi e fuggi? Oppure sentiamo talmente forte la necessità di essere sempre in contatto con la bellezza del nostro pianeta che non siamo disposti a farne a meno neppure in ufficio? La prima, temo. The Kite Fish (2021) di Paola Ceci e The Jerusalem Windows. Simeon (1962) di Marc Chagall offrono un punto di vista decisamente all’insegna della leggerezza su una realtà altra, in cui i pesci e i tori possono volare. Tra la fantasia e la speranza di un Paradiso a portata di mano, si muovono le opere della francese Andrea Chantal Barthélémy, Nostra Terra (2022), di Antonella Mezzani, Il giardino segreto (2018), dell’austriaca Christina Mitterhuber, My Garden (2022); in tutti e tre i casi colgo un desiderio o il compimento del “ritorno a casa” del femminile. Invece nelle opere di Roberta Minaccioni, Il paradiso appena fuori dalla finestra, Il paradiso nei sogni di mia figlia e Il paradiso nei sogni di mio figlio, tutti del 2023, è forte l’idea che la Terra, intesa come il pianeta in cui viviamo, sia a tutti gli effetti un Eden, creato e donatoci da Dio, e che sia nostro dovere mantenere puro e preservarlo per i nostri figli. Il passaggio verso Madre Terra, colei che dovremmo onorare ogni giorno, è d’obbligo. Gli antichi lo facevano. Nelle opere della statunitense Patrizia A. Salles, ispirate alle statuine delle Veneri paleolitiche rinvenute nelle grotte dei Balzi Rossi, in Liguria, Balzi Goddess 1, 4 e 5, realizzate tra il 2020 e il 2021, seni, fianchi e ventre sono pronunciati, a sottolineare la maternità, l’accoglienza di una nuova vita. Stesso significato simbolico de La grotta (2021) dell’italo-russa Olga Buneeva. D’altro canto cosa è una grotta se non un antro, il ventre di Madre Terra? Nella versione di Luigi Stefano Cannelli La Terra (2023) è aulica, dalla bellezza algida, di un classicismo senza tempo, che strizza l’occhiolino all’Iconologia di Cesare Ripa, ma da questi poi se ne discosta collocando una pantera nera, elegante, selvaggia e indomabile, ai suoi piedi. Terra madre – madre terra di Lorella Lion è decisamente una donna dai lineamenti più “attuali”, contemporanei. Terra (2004) di Antonella Nannicini è raccolta in posizione fetale, a ricordare che la nascita, la vita, la morte e la rinascita sono tutti aspetti di un processo senza fine, che va avanti dalla notte dei tempi. Anche l’omonima argilla di Alessandra Borzacchini rimanda al concetto di trasformazione insito nell’elemento terra. Quella capacità generatrice della Madre Terra è la stessa che impregna l’argilla che l’artista plasma, cuoce e offre al mondo. La semplicità della materia prima è anche alla base dell’opera della messicana Josefina Temín, Eucalipto y Tejido (2021), sebbene la stoffa cui richiama il titolo (tejido in spagnolo) è in realtà solo evocata dalla sapiente manipolazione della carta. Stesso principio, quello della trasformazione, che mi piace cogliere nell’opera di Marco Pierini Esplorando un nuovo mondo (2021), una sorta di Pangea, una commistione di terra ed acqua ricca e pullulante di vita, in cui l’uomo sembra ancora non aver fatto capolino. La costruzione mentale si fa sempre più prorompente nei lavori dell’inglese Joy Moore Erano tutto vigne e betulle bianche (2020) e Landscape Movements (2018) del canadese Gregg Simpson. L’evanescenza del primo lascia il posto alla geometrizzazione nel secondo, mentre nei lavori di Mario Rossi il paesaggio diviene sempre più astratto, sottolineato anche dai titoli (SL30, SL64, SL67, SL68, tutte del 2020) che non hanno più la necessità di fornire delle coordinate o indicazioni geografiche di qualsivoglia natura. Le distese di campi, le colline, i fiori, tutto si trasmuta in scie di colori in movimento. L’astrazione raggiunge il suo apice nelle tele della serie The Nomads Square (2020) del tedesco Marc Schmitz, #14_01 e #14_03, in cui il nomadismo tipico della popolazione mongola è lo spunto per dar vita a paesaggi/passaggi in trasformazione continua, a volte persino impercettibile, laddove però il sentire umano gioca un ruolo di primaria importanza rendendo questi luoghi, interiori prima ancora che fisici, sempre unici e mai uguali a sé stessi. Nella ricerca della tedesca Marion Jungeblut è la percezione dello spazio in cui siamo collocati il vero soggetto. Le superfici specchianti di opere come Dimension Four Raumzeitraum 1 e Dimension Four Zeitraumzeit, entrambe del 2022, instillano un dubbio nello spettatore: cosa è reale e cosa non lo è? E di conseguenza: è reale la dimensione in cui ci muoviamo? L’elemento terra ormai sembra impalpabile, superato. E chiudo con i lavori Contadini danzanti (1989) e Gnome Harvest (La mietitura degli gnomi) (2000-1) dell’inglese Anthony Gerald Binns, in cui seppure col sarcasmo e lo humor che lo caratterizzavano, il rispetto per la terra e la tradizione agricola, ma anche quello per gli animali (la contadina che accarezza il muso del bue vale più di qualsivoglia panegirico) portano alla ricchezza e all’abbondanza. Una bella lezione di vita per tutti coloro che allevano ammassando e maltrattando i “loro” animali. Ma questa è un’altra storia…
|
|
|
|
|
|
|