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Vincenzo Vavuso. Rabbia e silenzio
Mostra personale
Museo Civico Rocca Flea, Gualdo Tadino (PG)
5-27 dicembre 2014
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Con il patrocinio della Regione Umbria, della Provincia di Perugia e del Comune di Gualdo Tadino (PG)
«Sono un figlio arrabbiato di un mondo malato». Tutta la ricerca di Vincenzo Vavuso potrebbe essere racchiusa in questa frase, di una lucidità intellettiva straordinaria. Coloro che si aspettassero pulizia formale da un’analisi tanto puntuale quanto incisiva rimarrebbero sorpresi, invece, da quanta “azione”, intesa anche come distruzione e violenza, sia alla base della sua produzione artistica. Sostanzialmente, sin dal primo approccio virtuale, seguito poi dalla visione dal vero, tali lavori hanno rimandato alla mia mente, più per associazione di idee evidentemente che per reale derivazione, “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury. Tra i romanzi più formativi del mio percorso liceale, l’idea di una società impegnata a distruggere e bruciare libri – di ogni genere, bene inteso – è da allora ai miei occhi sinonimo di antiutopismo e di massimo aspetto della sua involuzione tout court. Immediata, quindi, l’affinità elettiva, per continuare con le citazioni letterarie, nei confronti della ricerca di Vavuso. Vedere le pagine martoriate perché strappate, bruciate, letteralmente calpestate, tagliate, infilzate e segate in due, per chiunque creda nel ruolo salvifico della Bellezza di dostoevskijana memoria e della Cultura, è davvero un colpo al cuore. Ma tutto ciò è necessario per risvegliare le coscienze da un torpore che ha il sapore di un rassegnato abbandono all’ignoranza, alla truculenta mancanza di valori che a loro volta generano ingordigia, imbrutimento, sudditanza e repressione intellettuale. Insomma, tutto ciò che chiunque creda negli ideali della Libertà proprio non vorrebbe mai vivere, né vedere. Sotto chiave, poi, spalanca le porte verso un messaggio ancora più subdolo: la Cultura e la Conoscenza come appannaggio di pochi privilegiati, il che farebbe indietreggiare l’Uomo di molti secoli. Non a caso Elio Vittorini affermava che «la cultura non è professione per pochi: è una condizione per tutti, che completa l'esistenza dell'uomo». Anche in L’abbandono la chiave compare spezzata, mentre l’altra metà è rimasta all’interno del lucchetto, che simbolicamente non si aprirà più. Il messaggio è chiaro: se tralasciamo che le fondamenta della nostra cultura, ma anche della nostra civiltà, rimangano inaccessibili o semplicemente passino in secondo piano rispetto ad altre frivolezze, sarà poi molto complicato, se non addirittura impossibile, recuperarle e farle nuovamente nostre. La rabbia di Vavuso, in questo, è la stessa che dovremmo provare tutti, nel vedere e sperimentare quotidianamente quanti pseudo valori/cultura/arte prendano il posto di più elevati messaggi. La rabbia, pertanto, scaturisce dalla presa di coscienza che l’Arte e la Cultura racchiudono un potere salvifico. È una dichiarazione forte, che molti altri artisti in passato hanno pronunciato, seppure in modi molto diversi da Vavuso. E proprio per sottolineare questo aspetto, rimando alla lettura di molte opere – ed altrettante affermazioni – di Marc Chagall, pensando a qualcosa di drasticamente antitetico alla ricerca dell’artista salernitano; il ruolo dell’artista, e dell’Arte, è quello di riportare l’umanità sulla giusta via, laddove “giusta” stia per etica. Solo così la Bellezza salverà il mondo. Adelinda Allegretti
Il Museo Dal 1999 la Rocca Flea è sede del Museo Civico. Il suo nome, derivato dal vicino fiume Flebeo, poi chiamato Feo, compare già in documenti del XII secolo. Con il succedersi delle diverse dominazioni imposte alla città, vi si insediarono dapprima le milizie di Federico Barbarossa, poi quelle del papa e, nel 1208, quelle della guelfa Perugia. Danneggiata dai molti conflitti, venne restaurata da Federico II intorno al 1242. Nel 1350, quando Gualdo Tadino fu nuovamente assoggettata da Perugia, iniziò la costruzione del cassero, sul quale, infatti, insieme all'emblema cittadino, figura il grifo perugino. Nel XVI secolo divenne la residenza dei legati pontifici e gli ambienti interni furono di conseguenza adattati e decorati con affreschi. Notevoli le modifiche che si ebbero a partire dal 1888, quando la Rocca divenne carcere. Riportata al suo precedente aspetto grazie a recenti restauri e adibita a museo, accoglie oggi nella sala al pian terreno e in due sale al primo piano, nella palazzina Del Monte, reperti archeologici che testimoniano il popolamento di Gualdo Tadino dalla preistoria al Medioevo; nell'atrio e nella stanza al primo piano, è ospitata la sezione ceramica, con opere del XIX e XX secolo; negli ambienti soprastanti la pinacoteca. Costituita a seguito delle demaniazioni, la raccolta dei dipinti era stata dapprima ospitata in una sala del palazzo comunale e poi trasferita, nel 1919, nel palazzotto medievale di via Calai. Riorganizzata nel 1966 dall'allora soprintendente Francesco Santi nella chiesa di San Francesco, in pieno centro storico, per sopravvenuti dissesti dell'edificio fu chiusa al pubblico nel 1979. Comprende opere provenienti in massima parte dalle chiese della zona, pienamente rappresentative della cultura figurativa di confine fra Umbria e Marche. Di notevole interesse i dipinti del capostipite della scuola locale Matteo da Gualdo e il grande polittico di Niccolò di Liberatore, detto l'Alunno.
La rocca ed il parco La struttura della rocca è composta da due elementi fondamentali di organizzazione geometrica: un nucleo a pianta poligonale, quello della primitiva fortezza, con schemi tipici delle costruzioni a carattere difensivo, e un nucleo più moderno, quello della palazzina Del Monte dall'andamento regolare. I due elementi sono raccordati, verso il centro storico, da una possente muraglia provvista di camminatoi di ronda e, a nord-est, da un ballatoio coperto all'altezza del piano nobile. L'analisi dell'articolazione morfologica e volumetrica sostiene l'ipotesi che in origine la rocca fosse circoscritta al sistema poligonale della fortezza e forse provvista della muraglia esterna di difesa. Essa comprende tutte le caratteristiche morfologiche e tipologiche di un edificio fortemente vocato a funzioni difensive: una pianta ad articolazione poligonale con torrioni localizzati nell'intersezione angolare dei lati. Due alti e possenti - il Maschio centrale e la Torre Cavaliera - in relazione fra loro diagonalmente, e altri due emergenti dalle pareti continue del fortilizio. Quello esposto ad est è facilmente individuabile; per l'altro, coincidente con la base della cappella di San Giovanni Battista, si possono formulare solo ipotesi; un alzato volumetrico a forte verticalizzazione e con poche finestre presenti per lo più nei piani più alti. Va annotato che le ampie finestre presenti al piano nobile altro non sono che il risultato dell'adeguamento funzionale del Seicento. In un periodo in cui le ragioni di natura difensiva avevano problematiche di natura diversa, la rozza fortezza fu trasformata in aristocratica residenza dall'allora legato pontificio cardinale Salviati; collegamenti verticali per gran parte esterni e realizzati con strutture in legno. Una lettura di questo genere sostiene l'ipotesi che l'attuale scala trapezoidale di collegamento interno sia inserita nello spazio della corte originaria della fortezza, al centro del quale esisteva già all'origine un serbatoio alimentato dall'acquedotto proveniente dalle sorgenti di Santo Marzio. Il giardino che abbraccia la Rocca Flea è parte integrante e naturale cornice della fortezza. Il parco non è solo un luogo di svago, ma raccoglie in sù una valenza naturalistica di primo piano. Un visitatore attento, potrà notare le diverse specie di piante che decorano gli spazi a ridosso delle mura del fortilizio. Le varietà messe a dimora, da quelle annuali a quelle stagionali, seguono un progetto ben preciso sia per la disposizione che per le specie, tipiche dei nostri territori. Dall'ulivo "cultivar rigalese", alla ginestra dei nostri monti, dalle piccole e profumatissime macchie di santoreggia (erba dalle proprietà mediche riconosciute sin dai tempi antichi), alle piante che si ritrovano nei dipinti ospitati nella Pinacoteca: dal nocciolo presente nell'Albero di Jesse; al melograno, visibile nelle mani del bambino nella tavola realizzata da Matteo da Gualdo nel 1462. Il percorso è un tripudio di profumi che si susseguono, un incontro con la natura in un contesto nobilitato dalle antiche mura della Rocca.
Collezioni Con la sistemazione della Pinacoteca comunale nella Rocca Flea ha trovato attuazione il disegno di associare alla stessa le sezioni archeologica e ceramica, primo importante passo per riunire progressivamente le testimonianze più remote della civiltà locale. Così il percorso museale si articola in tre sezioni. La sezione archeologica o antiquarium: insieme di reperti che testimoniano la presenza sul territorio gualdese di insediamenti preistorici, umbri, romani e longobardi. Le tre sale che costituiscono la sezione, ospitano testimonianze di varia natura, tra cui manufatti di epoca preistorica, una piccola sezione numismatica, frammenti marmorei di epoca romana, oltre alle testimonianze di epoca preromanica provenienti da necropoli venute alla luce proprio nei territori del gualdese. La sezione di ceramica artistica, espone manufatti risalenti al XV secolo ed un'ampia raccolta di opere a lustro oro e rubino prodotte tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, che mettono in piena evidenza la grande fioritura di questa importante manifattura artistica nella città, con particolare riguardo alle grandi personalità locali. La Pinacoteca accoglie opere provenienti dalle chiese della città e del territorio circostante, tra cui il polittico del 1471 di Niccolò di Liberatore detto l'Alunno, sua opera capitale, ed alcune importanti opere quattrocentesche del noto pittore locale, Matteo da Gualdo, oltre ad un notevole corpus di opere di suoi seguaci. Va ricordata la presenza all'interno della Rocca Flea di una serie di paramenti, arredi e corredi, che fanno parte attiva della sua storia, è inoltre possibile durante il percorso museale, ammirare le palazzine cinquecentesche volute dai cardinali legati, e la presenza di particolari affreschi, come la rappresentazione della Trinità secondo l'iconografia del Vultus Trifrons, all'interno dell'antica chiesa del X secolo, che fu inglobata all'interno della fortezza.
Storia della Città di Gualdo Tadino Dalle pendici del monte Serrasanta la città domina un'ampia e fertile conca intramontana. Il nome attuale rievoca complesse vicende storiche. Numerose testimonianze archeologiche dimostrano che la zona fu frequentata fin dall'età preistorica: nella valle di Santo Marzio è stato rinvenuto un ripostiglio con oggetti in bronzo e due dischi aurei del XII secolo a.C., ora al Museo Archeologico Nazionale di Perugia, e anche il Colle Mori, poco più a nord fu occupato sin dal II millennio a.C. Fra l'VIII-VII secolo e il III secolo a.C. si sviluppò un importante centro umbro abitato dalla comunità dei Tadinates, che, come attestano le minacce rituali riportate nelle Tavole bronzee di Gubbio, erano in lotta con gli eugubini. Con la conquista romana dell'Umbria, nel III secolo a.C., sorge nell'area di Sant'Antonio di Rasina, lungo quella via Flaminia che dal 220 a.C. collega Roma e Rimini e che avrebbe determinato le vicende del luogo nei secoli successivi, l'insediamento di Tadinum. Nel VI secolo d.C. la guerra greco-gotica infuriò proprio lungo la Flaminia, che collegava Roma ai possedimenti bizantini e a Ravenna. Totila, re dei Goti, distrusse Tadinum, ma nella stessa località, nel 552 d.C., durante la decisiva battaglia di Tagina, fu sbaragliato e ucciso dai Bizantini guidati da Narsete. In seguito la città venne saccheggiata dai Longobardi di Alboino e di Liutprando e poi dai Saraceni e fu rasa al suolo da Ottone III nel 996. Pochi anni dopo il Mille risorse con un nuovo nome di origine longobarda, Gualdo, derivato da wald, bosco. Distrutta da un incendio, fu nuovamente edificata sul colle di San Michele, per concessione di Federico II, poco prima della metà del XIII secolo e il borgo assunse allora la forma che tuttora la caratterizza. Alla fine del XIII secolo fu assoggettata da Perugia, sotto il cui dominio rimase fino al 1469, anno in cui divenne legazione autonoma dello Stato pontificio. Nel 1833 Gregorio XVI le conferì il titolo di città e ne cambiò il nome da Gualdo di Nocera a Gualdo Tadino.
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Allegati |
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