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Arte nell'Arte. Curator's room
Mostra collettiva
Castello Malaspina Cybo, Massa
21 agosto - 4 settembre 2009
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Artisti selezionati: Paola Endellini (I), Alessandra Ferretti (I), Roberto Lalli (I), Rocío Pérez Vallejo (MEX), Angela Policastro (I), Verena Riefe (D), Norbert Schmitt (D), Maria Grazia Stoppa (I), Raffaele Tranquillo (I), Thorsten Trenkel (D).
Con il patrocinio della Regione Toscana, della Provincia di Massa Carrara, del Comune di Massa, della Camera di Commercio Massa-Carrara, dell’Istituto Valorizzazione Castelli.
Programma dell'evento: Molti gli eventi collaterali che animeranno il Castello il venerdì ed il sabato sera. 21 agosto ore 18: inaugurazione della manifestazione “Arte nell’Arte” e della mostra fotografica “Cuore Eritrea” a cura dell’Associazione “Un Cuore un Mondo”. 22 agosto ore 21: presentazione del libro “Il Lago sul Fiume” di Irene Iacopetti, presentata dalla Dott. Gabriella Fanfani, con interventi dell’Onorevole Elena Cordoni, dell’Assessore alla Cultura del Comune di Massa Carmen Menchini, dell’Assessore alla Cultura della Provincia di Massa Lara Venè. 23 agosto ore 20,30: serata “Cuore Eritrea”, con proiezione del documentario della missione di Cooperazione Sanitaria Internazionale. Progetto presentato dalla Fondazione Gabriele Monasterio, Ospedale del Cuore-Massa, e dall’Associazione “Un Cuore un Mondo”, a favore dei bambini cardiopatici eritrei. 29 agosto ore 21: presentazione dei libri “Codex Pilati” di Mario Carbone Colli e Gianluca Rizzo e “Scritte” di Fabio Ricci, presentato da Valentina Guadagno, con lettura di alcuni brani da parte di un attore teatrale della Compagnia degli Evasi. Concerto rinascimentale del duo Fenzi-De Luigi, per chitarra classica.
Un’antica sala da ballo per 10 artisti. Quando Ezio De Angeli mi ha offerto la possibilità di coadiuvarlo nell’organizzazione della terza edizione di “Arte nell’Arte” con una selezione a latere di quella ufficiale, mi sono recata sul posto per visionare gli spazi espositivi del Castello Malaspina. Sono rimasta folgorata dalla storia che trasuda da quelle spesse mura, dai delicati e preziosi affreschi che ne ornano le sale, ma soprattutto dal meraviglioso belvedere di cui si può godere praticamente da ogni angolo del Castello. Non ultima, l’idea di animare nuovamente l’antica sala da ballo con opere di artisti provenienti da diverse regioni d’Italia e da altri Paesi, mi ha a tal punto entusiasmato da accettare immediatamente la proposta offertami. Per quanto concerne la scelta curatoriale si è preferito non intervenire con una specifica tematica, quanto piuttosto di mettere assieme opere non comunicanti tra loro; questo per non interferire con la mostra fotografica dal titolo “Cuore Eritrea”, e lasciando che l’unico fil rouge di Curator’s room fosse l’indiscussa qualità degli artisti selezionati. L’attenzione si è pertanto focalizzata principalmente su emergenti, sebbene non manchino artisti già affermati a livello nazionale ed internazionale. La mostra si apre con le opere di Paola Endellini. Artista raffinata, dalle decise doti ritrattistiche, la Endellini pone l’accento sul complicato mondo femminile. Intensi i due nudi esposti, Sì (2007) ed Occhio all’adolescenza (2008), in cui viene indagata la sessualità: adulta nel primo, col corpo peraltro fissato in uno scorcio di non facile realizzazione, ma che proprio per questo denota una profonda conoscenza dell’anatomia, ed ancora acerba nel secondo, che in un ben riuscito taglio fotografico mostra parte del volto, sensuale quanto ingenuo, che rimanda allo spettatore l’idea di una non-completa dimestichezza con la prorompenza delle proprie “forme” di donna. Con Noia, l’opera più recente, affronta un tema diverso, legato anch’esso alla condizione femminile, ed al contempo getta uno sguardo al passato: quasi un omaggio a Vincent van Gogh ed a molta pittura olandese dell’Ottocento, la figura femminile compare completamente svincolata da quel mondo fatto di luci e lustrini di Prima di entrare in scena… (2007), che sembra invece riportarci ai giorni nostri con lo spettacolo teatrale, la ricchezza dei costumi e la perfezione del trucco. E qui più che altrove va sottolineata la delicatezza di volti, dai tratti assolutamente perfetti e veritieri. Alessandra Ferretti, la più giovane tra i partecipanti, sposta l’attenzione sull’autoritratto. È quasi un assunto matematico. Da sempre gli artisti, e la storia dell’arte lo dimostra, trovano nella propria figura il primo soggetto da ritrarre. Potrei citare un elenco senza fine di grandi maestri che, davanti ad uno specchio, hanno indagato il proprio volto, il proprio sguardo, il taglio della propria bocca e così via, prima ancora di rivolgersi all’esterno, ad altri soggetti, ad altri tratti somatici. Verrebbe da citare Socrate: “Conosci te stesso”. È quanto fa la Ferretti nei tre lavori recenti, peraltro con risultati che mi hanno sorpreso: in Difetto quel modo di entrare quasi in punta di piedi da sinistra, lascia vuoti i due terzi della superficie pittorica. Inoltre solo lo sguardo è studiato con attenzione, mentre tutto il resto del volto è appena definito. Persino le ciocche dei capelli – quasi un moderno omaggio a molta ritrattistica rinascimentale – sono solo un vuoto ghirigoro. E lo sfondo prende il sopravvento, attraverso una decorazione, delicata ma al tempo stesso decisa e capillare, che dà un aspetto retrò alla composizione, a metà strada tra i Preraffaelliti e l’Art Nouveau. È evidente, quindi, che persino la scelta dell’utilizzo della matita, e quindi il ribadire del “saper disegnare”, non è affatto casuale. Anche Al di là di autoritrarre… ed Affinità divengono la scusante per indagare, ancora una volta, volti ben noti. Discorso a parte per Nient’altro che… (2008), l’opera che ha determinato l’inizio della carriera artistica della Ferretti, già esposto presso il Museo delle Auto della Polizia di Stato di Roma* e da intendersi quale monito all’accidia ed alla mancanza di moto (“Chi si ferma è (…) perso, spacciato, stracciato, chi si ferma viene ramificato…”, riporta la scritta sulla chioma dell’uomo-albero). Con Roberto Lalli si arriva ad una pittura di grande e profonda introspezione. Considerando Alberto Burri – come di fatto è – uno dei più grandi maestri del Novecento, Lalli parte dalla sua ricerca per scavare nel profondo, giù fino agli abissi della coscienza. Bruciata, abrasa, tagliata, letteralmente ferita e riportata a nuova vita, la tela subisce una sorta di purificazione. A volte bisogna distruggere e corrodere le apparenze per trovare la giusta via. In Grande cantiere (2008), opera esposta in occasione del progetto “Dialoghi”**, il titolo stesso suggerisce uno sporcarsi le mani per costruire qualcosa di nuovo, che eluda la superficie patinata della realtà per dirigersi verso l’essenza. È un processo che riguarda l’anima, prima ancora dell’esterno e della tela, o che meglio ancora si manifesta sulla tela solo quando ha raggiunto la totale maturazione nel subconscio, spesso in apparente disaccordo con qualsivoglia logicità. Anche Omaggio a Burri e Senza titolo, entrambi del 2009, sono la rappresentazione di quel continuo ed incessante strappo, un’ideale lacerazione di quanto di più sacro ci sia per un pittore, ovvero la tela, condizione indispensabile per il raggiungimento della Verità. Dea (2008) di Rocío Pérez Vallejo non mancherà certo di catturare i sensi dello spettatore. Di grandezza oltre il naturale, l’opera è stata pensata come un moderno stendardo processionale, laddove la figura di Cristo crocifisso viene sostituita da quella di una giovane donna. Scomparsa la croce del martirio, ma come Gesù anch’ella nuda e nella stessa postura, la bella e sensuale figura muliebre sembra volteggiare nell’aria, tanto che la sua ombra si proietta sul fondo. Impossibile non pensare all’Estasi di Santa Teresa del Bernini, a quella transverberazione al limite della decenza, accettata dalla Chiesa solo in virtù della fama di quel geniale artista e dell’idea dimostrare ai fedeli che l’amore per Dio non ha nulla da invidiare all’amore terreno. Nell’opera dell’artista messicana l’utilizzo di oli essenziali di lavanda e rosmarino, oltre a preservare la tela dall’invecchiamento, coinvolge il fruitore in quel medesimo raptus di sensi che trasporta verso l’alto la donna. Il fiore dello sfondo, non a caso rosso, diviene sinonimo di passione, ma anche di peccato, laddove alla venerazione di Cristo la modernità sostituisce quella della donna, quale nuova icona. Molteplici le chiavi di lettura (sacerdotessa o demone, positiva o negativa), che lascio al sentire di chi guarda. L’edonismo e la bellezza del corpo sono gli assoluti protagonisti delle opere di Angela Policastro. Sensuali, provocanti, vere e proprie maliarde, le donne da lei ritratte catturano lo spettatore grazie anche a scelte cromatiche forti e decise, come in Pin-up (2009), rese ancora più accattivanti dall’utilizzo del caffè, che conferisce all’incarnato una tonalità particolarmente calda. L’attesa, anch’essa recente, propone un impegnativo scorcio prospettico, un ardito sottinsù che contribuisce a rendere ancora più lunghe le gambe in primo piano. E se per lungo tempo l’interesse della Policastro si è incentrato attorno alla figura femminile, in occasione di questa mostra è stato selezionato In the dark (2009), uno dei primi ritratti maschili che mostra una figura nuda che più che immersa nel buio sembra uscire dalle tenebre, contribuendo a creare attorno a sé un’aura di mistero, fascino e pericolo. Quello presentato da Verena Riefe è una sorta di bestiario medievale rivisitato in chiave moderna. Un cane, una zebra, una tigre ed una capra, tutti reinventati con estrema fantasia utilizzando supporti in metallo o alluminio che ne consentono la lavorazione su ambo i lati. L’effetto che si ottiene è quello di un oggetto a metà strada tra una scultura ed una pittura, che permette di avere una visione tridimensionale del soggetto ritratto. Ma a sorprendere lo spettatore è anche lo strano accostamento dei colori, che lontani da una resa mimetica della realtà, reinventano di volta in volta la silhouette dell’animale in questione. Chi di noi ha mai visto una tigre bianca dal manto pezzato con improbabili macchie color blu, rosso, giallo e verde, peraltro degne di una decorazione optical? O una zebra dal corpo rigato, dal muso alla coda, con quei medesimi colori? O una capra, anatomicamente la più originale di tutti gli animali selezionati per questa mostra, raffigurata per metà immersa nell’acqua, con tanto di pesciolini che nuotano nella corrente? Una produzione originale, allegra e colorata quella dell’artista tedesca, destinata a richiamare l’attenzione del pubblico più diversificato. Norbert Schmitt, poliedrico artista tedesco, è presente in mostra con dipinti e sculture. Entrambi i linguaggi visivi risultano caratterizzati dalla predilezione per l’informale, che nelle pitture si traduce in un groviglio di pennellate e di colori, molto spesso interrotto da scritte. In Carne Actio (2008), opera anch’essa esposta presso il Museo delle Auto della Polizia di Stato***, focalizza l’attenzione sulla positività dell’azione di contro alla staticità. Soltanto un movimento costante, inteso come evoluzione, può innalzare l’uomo verso più alti lidi. Di qui l’intricato avvilupparsi di linee. Gli stessi colori, così diversi e carichi di sfumature, si fanno sinonimo delle differenti personalità che, pur condividendo lo stesso spazio, necessariamente sono l’una diversa dall’altra. È la moltitudine che diviene la rappresentazione stessa della vita. Nel coevo Kosmos III, invece, la pennellata ed i colori si fanno più decisi e le sfumature più limitate, quasi un riferimento a quella massa magmatica, il Caos, considerata all’origine dell’Universo. Ed è in questa stessa ottica che vanno lette le masse informi delle tre sculture esposte, tutte non a caso Senza titolo (2003). Maria Grazia Stoppa è presente all’interno del Castello con un’installazione costituita da nove sculture in ceramica raku ed in ceramica smaltata dal titolo Verso i ghiacci (2008). Una famiglia di pinguini, il più grande dei quali guida i piccoli verso i pochi ghiacciai rimasti. L’intento dell’artista è quello di richiamare l’attenzione del pubblico non solo sul rischio di estinzione di tali animali, ma anche di farsi portavoce, come molteplici organizzazioni mondiali, di una denuncia nei confronti dell’uomo che non riesce a trovare – o forse non vuole – una soluzione definitiva al sempre più incalzante problema della riduzione dei ghiacciai, una delle principali cause dell’innalzamento del livello dei mari. La precarietà dell’equilibrio dell’ecosistema, unita al rischio di estinzione di tali animali, si traducono qui simbolicamente con l’impiego di un materiale particolarmente delicato come la ceramica. Una seconda ed inedita scultura della Stoppa, dal titolo Le sentinelle (2009), realizzata in acciaio corten, è stata collocata in città, presso la sede dell’APT di Massa. Concettualmente i lavori di Raffaele Tranquillo ci riportano verso quel male di vivere che più di ogni altra certezza ha condizionato l’uomo moderno. L’estenuante ricerca sia fuori (verso lidi lontani, basti pensare agli avventurieri dell’Ottocento e del primo Novecento) che dentro di sé (talvolta attraverso l’uso di droghe, talaltra grazie alla preghiera ed alla meditazione, ma sono solo degli spunti che andrebbero approfonditi a parte), di quel tassello mancante, esprime l’eterna difficoltà di appagare l’anima. I lavori di Tranquillo, tutti inediti ed eseguiti con una tecnica a dir poco anomala, ovvero stendendo del silicone direttamente sul supporto, si fanno carichi di significato. Sul baratro (2009), imponente nelle dimensioni, mostra quattro figure a mezzo busto ripiegate in avanti, quasi fossero intente a cercare qualcosa in terra. Sin dalla prima volta che ho visto l’opera dal vero un’unica chiave di lettura si è fatta strada, ovvero l’idea che quel guardare in basso o in terra che dir si voglia, in realtà non sia altro che un cercare le proprie radici, il proprio Sé. Come non pensare a certa produzione magrittiana? Un unico corpo da cui si dipartono quattro entità, tutte all’incessante ricerca di qualcosa, che sembrano non aver focalizzato di appartenere ad un’unica radice e, di conseguenza, perdono tempo a cercare ognuna la propria derivazione. Eppure, se solo guardassero un po’ più in profondità, scoprirebbero di avere la medesima radice, di essere parte integrante di un Tutto. Anche il coevo Quattro sembra sottolineare lo stesso principio: una affiancata all’altra, le quattro silhouettes che si potrebbero ripetere all’infinito, costanti nelle proporzioni, fanno pensare ad un uomo tra due specchi. La sua immagine si perde nelle molteplici repliche di se stesso, facendogli perdere la vera percezione del suo essere, di unità di corpo e spirito. Delicate e preziose le sculture di Thorsten Trenkel, artista tedesco che unisce la funzionalità del design all’originalità dell’opera unica. In Female operasinger (2007), realizzata in porcellana, la calotta di luce si trasforma nell’ampiezza del vestito, sottolineata da un bordo di piume, a ricordare il fasto e la preziosità degli abiti di scena. Flowing communication (2007) ed In the square (2008), entrambi retroilluminati, sono invece concepiti come veri e propri quadri, ovvero oggetti da parete, realizzati in porcellana, sabbia e vetro. Anche Ligth in oval (2008) si traduce in un oggetto con una sua ben definita applicazione, il far luce, ma senza rinunciare alla preziosità dell’unicum. Una selezione diversificata negli stili e nella provenienza degli artisti, in grado, almeno questa è la mia speranza, di coinvolgere un pubblico di età ed estrazione culturale diverse, più o meno avvezzo all’arte contemporanea, che fin troppo spesso viene vissuta come una realtà estraniante, di incomprensibile lettura, e soprattutto completamente slegata con il passato. La scommessa, pertanto, è stata anche questa: dimostrare che l’arte dei giorni d’oggi non è affatto difficile da spiegare e, di conseguenza, da comprendere, e che se collocata in uno spazio intriso di storia come il Castello Malaspina, non entra affatto in competizione con esso, ma ne esalta il fascino. Adelinda Allegretti
Note al testo: * “Homo velocipede” a cura di Adelinda Allegretti, Roma 31 gennaio-28 febbraio 2009. ** “Dialoghi #1” a cura di Adelinda Allegretti, Museo Civico “Umberto Mastroianni” di Marino (RM) 24 aprile-29 maggio 2009. *** Vedi nota 1
Storia del castello Il Castello di Massa domina dall'alto di un colle roccioso l'estesa area pianeggiante sottostante, con un'ampia visibilità su tutta la costa. Furono con ogni probabilità queste caratteristiche a determinare l'occupazione della collina dove, presumibilmente in età altomedievale, venne realizzato un impianto fortificato. La documentazione scritta menziona il toponimo Massa nell'882; secondo gli storici la località doveva essere situata sul colle del castello. Il castello, sede dei marchesi di Massa, ebbe particolari relazioni con la costa ed il mare. Questi marchesi, combattendo i pirati, si resero feudatari anche della Corsica, assumendone il predicato: marchesi di Massa-Corsica. La prima documentazione scritta relativa al castello risale al 1164, quando l'imperatore Federico Barbarossa assegna parte del castello ad Obizzo Malaspina. Alcuni cronisti ricordano che Massa, circa un secolo più tardi, nel 1268, subì l'occupazione delle truppe di Corradino di Svevia che devastarono il territorio. L'anno successivo il castello venne distrutto per opera dei lucchesi che non tollerarono la disponibilità offerta dai massesi alle truppe dell'imperatore. Le vicende storiche e architettoniche del castello per i primi secoli del basso medioevo restano nell'oscurità; estromessi i marchesi di Massa, subentrarono interamente i Malaspina che cedettero il castello, nei primi anni del trecento, a Castruccio Castracani degli Antelminelli. Dal secolo XIV alla metà del secolo successivo Massa ed il suo Castello dipesero da Lucca, Pisa, e Firenze, divenendo poi proprietà dei marchesi Malaspina di Fosdinovo. E' con questa signoria che il castello assunse il ruolo di residenza e subì le più profonde trasformazioni, in un periodo compreso tra il 1400 ed il 1600. Dopo la metà del secolo XVII la principale funzione del castello divenne quella militare fin quando, tramontati gli stati preunitari, rimase come unica destinazione d'uso quella di carcere, protrattasi fino al 1946. I restauri eseguiti dalla Soprintendenza ai Monumenti di Pisa, negli anni cinquanta, restituirono il castello alla città. Osservando dall'alto il castello Malaspina, si possono notare le tre unità che lo compongono: la possente cinta muraria, la residenza ed il mastio. La cinta muraria, creata per ospitare la difesa armata del castello, recinge infatti il palazzo del marchese, importante residenza rinascimentale e, sulla sommità della collina, il mastio, ultima difesa in grado di proteggere non solo le truppe armate del marchese, ma anche gli abitanti del castello e del borgo.
La cortina muraria che delimita il versante nord-ovest dà origine ad un ampio cortile, contraddistinto da un lungo camminamento, che collega i baluardi posti alle due estremità nord e sud. Il baluardo nord attualmente raggiungibile tramite una rampa gradonata, era originariamente servito da una stretta scala scavata direttamente nella roccia. Interessante l'accurata realizzazione di questo baluardo o puntone che, attribuibile ai secoli XVI-XVII, denota caratteri stilistici e costruttivi eccellenti, progettati da un esperto ingegnere militare il cui nome ci è al momento ignoto. Questo autore ha lasciato una eloquente testimonianza delle sue conoscenze tecniche in una articolata feritoia, adiacente al baluardo in direzione nord-ovest e accessibile dall'interno del cortile a piano terra. Il lungo camminamento è sorretto da una struttura muraria composta da due piani e aperta verso l'interno. Si tratta di vani realizzati per ospitare le artiglierie leggere; la loro costruzione sarebbe documentata da una iscrizione, 1615, presente su di un concio angolare. Tuttavia l'iscrizione potrebbe non corrispondere alla reale data di edificazione dei vani la cui collocazione cronologica potrebbe essere posteriore (seconda metà del secolo XVII). I camminamenti e i vani per le artiglierie furono in parte di nuova costruzione, e cioè quelli corrispondenti all'intero puntone nord ed alla cortina muraria compresa tra la bertesca d'ingresso e il puntone, ed in parte realizzati sopraelevando l'antica cinta muraria merlata, presumibilmente risalente al secolo XV. In alcuni tratti sono ancora ben visibili le più antiche tracce murarie contraddistinte, nel corpo centrale, da una modesta merlatura; in direzione nord la costruzione del puntone ampliò l'antico perimetro, che ancora si conserva aderente ad una formazione rocciosa prospiciente i vani settentrionali sottostanti il camminamento. Nell'estensione meridionale il camminamento sovrasta un baluardo che, addossato alle mura quattrocentesche, risale al 1603.
Dall'ampio cortile dove erano ospitate le cannoniere è possibile accedere al palazzo residenziale, attraversando una cortina muraria sovrastata da una loggetta dai caratteri tardo-rinascimentali. Il palazzo, di forma irregolare, assimilabile ad una grossa L, presenta un cortile asimmetrico, sul quale si affacciano i due prospetti riccamente decorati. Le decorazioni pittoriche, per la massima parte risalenti ai restauri del primo dopoguerra, sono state riproposte sull'analisi di alcuni frammenti pittorici originali conservatisi in alcuni punti della facciata meridionale. L'ala orientale del palazzo è disposta su tre livelli, uno in più rispetto all'ala meridionale che ospita i due saloni. In entrambi i due blocchi residenziali sono rintracciabili dei vani sotterranei. Entrando nel cortile, sulla destra, è collocata una porta che dà accesso, tramite un corridoio, ad un complesso ambiente voltato. Si tratta di diversi vani che ruotano attorno ad un grosso pilastro marmoreo, sul quale grava il peso delle volte di copertura. Il pilastro, composto da grossi conci di marmo bianco e bardiglio in filari alterni, appartiene ad un palazzo oggi non più visibile, sostituito tra la fine del secolo XIV e gli inizi del secolo successivo da un edificio a base poligonale anch'esso pesantemente modificato nei secoli successivi. Nell'altra ala del palazzo sono stati ricavati, scavando nella roccia, quattro vani sotterranei di cui uno, isolato dagli altri e accessibile direttamente dal cortile, ospitava il forno. Ai tre vani rimanenti si può accedere dall'interno del palazzo, tramite una ripida scala raggiungibile dalle sale del piano terra e il cui ingresso, definito da un portale marmoreo, è situato sotto il loggiato. In questi ambienti erano ricavate le cantine che ospitavano, secondo quanto attestato dalla documentazione scritta, tini di diverse misure adoperati come contenitori per sale e farina di grano, botti, barili, vasi in terracotta e in marmo (due dei quali ancora esistenti) per la conservazione dell'olio.
Le sale più interessanti del piano terreno si trovano nell'ala meridionale, dove si svolgeva parte della vita mondana dei marchesi: un ampio salone, con un grande caminetto nella parete di fodo, era destinato alle feste e ai ricevimenti. Ritratti marmorei, scrigni dorati e intagliati, mobili riccamente decorati, una tavola di pioppo coperta con tovaglia in cuoio dorato, due mappamondi coperti con tela turchina e sontuosi tendaggi costituivano l'arredo del salone, dove gli ospiti potevano trascorrere il loro tempo con passatempi, tra i quali è documentato "un quadro di noce da giocare a scacchi". Dalla grande sala si accede a tre vani interamente affrescati: una piccola cappella a pianta trapezoidale e due ambienti, ad essa adiacenti, adoperati come sale di rappresentanza. Gli affreschi della cappella, attribuiti al pittore Bernardino del Castelletto, e risalenti alla fine del secolo XV, raffigurano la "Nascita di Cristo", mentre le lunette ospitano cinque figure di profeti. La sala adiacente, attualmente separata dalla presenza di un arco con rivestimento marmoreo, era detta Sala della Spina. La sala, interamente decorata, raffigurata nelle murature perimetrali un paesaggio, nel quale si scorgono, in lontananza, due città. Sembra trattarsi di Firenze e Genova, i centri del potere attorno ai quali graviterà la politica malaspiniana. Al centro della volta, in uno spazio delimitato da quattro piante di spino, è collocata la raffigurazione di una grande sfera armillare. Negli intradossi delle lunette compaiono dei medaglioni con inseriti ritratti di personaggi malaspiniani. L'altra sala, adiacente alla piccola cappella, è denominata nei documenti storici Camera picta. La sala riporta una decorazione pittorica "a grottesca", mentre geometrie policrome nella volta propongono un motivo a "scaglie di pesce". Entrambe le sale, ricordate agli inizi del secolo XVI, erano adoperate in occasioni ufficiali e costituivano i locali di rappresentanza dove si svolgevano gli incontri formali come, ad esempio, i rogiti notarili. Le camere da letto dei feudatari e degli ospiti erano collocate al primo piano dell'ala nord-est del palazzo, dove ampi vani adiacenti erano in diretta comunicazione tra loro. Si ritiene che la camera principale fosse la seconda procedendo da nord a sud, almeno per due motivi. La camera era infatti l'unica dotata di servizi igienici ed era servita da almeno tre uscite: una ordinaria, rivolta sul corridoio al termine delle scale pricipali, una secondaria che, tramite una modesta scala con gradini in pietra, conduceva alle scale principali, ed una di soccorso che, dotata di un riparo con servizio igienico per una guardia, conduceva direttamete all'esterno del palazzo. Le camere da letto erano dotate di più lettiere (intelaiatura del letto), molte delle quali provviste di colonne, e di numerose coperte e copriletto in lana, seta, velluto ricamato in argento, damaschi e broccati d'oro e d'argento. Nelle stanze da letto i colori dominanti erano il rosso, il giallo, il crèmisi, il turchino e soprattutto gli ori e gli argenti. Le suppellettili erano in prevalenza composte da vasi d'alabastro, "cassettini" porta profuno in legno pregiato, avorio e metallo dipinto o dorato, maioliche di vario genere, caraffe in cristallo, scodelle, tazze; vi erano poi contenitori a forma di fiasco in vetro, rivestiti di seta, candelieri in ferro e orrone e, ovunque, immagini sacre.
Al secondo piano dell'ala meridionale è attualmnete visibile un grande salone, analogo per dimensioni a quello del piano terra. In adiacenza al salone si trovano alcune sale poste ad una quota leggermente inferiore. Si tratta di vani facenti parte dell'antico palazzo, presumibilmente quattrocentesco, inglobato nell'attuale residenza, frutto della trasformazione malaspiniana avvenuta tra la metà del secolo XV e gli inizi del secolo successivo. Questo edificio, che conserva al secondo piano una interessante decorazione a strisce, venne privato, in seguito alla costruzione del baluardo, nel 1603, della facciata principale rivolta verso il mare. Con questa demolizione il palazzo subì la perdita di alcune sale; è infatti visibile, in uno stretto pertugio del primo piano, traccia della decorazione interna di una delle sale abbattute. Interessante notare come negli intonaci di queste sale siano rintracciabili iscrizioni di detenuti già a partire dalla seconda metà del secolo XVI. Dal salone è possibile accedere al secondo piano dell'ala orientale dove si trovano alcune stanze contraddistinte da pregevoli volte. Si trattava con ogni probabilità di camere da letto secondarie le cui aperture, rivolte verso l'abitato della Rocca, danno accesso ad un lungo corridoio loggiato, recuperato grazie ai lavori di restauro eseguiti nel primo dopo guerra. Attraversando una stanza posta al termine del corridoio in direzione nord, era possibile uscire dal palazzo e accedere, tramite un ponte levatoio, alla parte propriamente militare del castello: il mastio. Il mastio, ultima difesa del castello, costituisce un'unità a se stante, autonoma e indipendente dal resto del castello; nessuno, tranne i soldati addetti, può accedere al suo interno. Nel castello Malaspina il mastio è realizzato secondo una insolita tecnica: anziché costruire in elevato una solida struttura, i progettisti preferiscono regolarizzare la roccia in posto, asportando masse rocciose e creando artificialmente pareti verticali di roccia. La soluzione scelta conferisce una straordinaria resistenza al mastio, in grado di sopportare qualsiasi tiro di artiglerie nemiche. La massa monolitica del mastio è quindi modificata grazie all'esperienza dei cavatori, abituati ad asportare dalla montagna enormi blocchi di marmo. La loro presenza all'interno del castello è documentata nella metà del secolo XVII quando gli scalpellini di Carrara e Bedizzano furono chiamati "a cavar le grotte". Ancora oggi nelle pareti del mastio sono rintracciabili piccole tagliate, significative tracce di una specifica lavorazione. Il mastio subì sostanziali modificazioni per iniziativa congiunta di Ricciarda e Alberico, come ricorda una lapide infissa nella parete rocciosa rivolta a mare; venne modificata l'area sommitale del castello che aveva ospitato, alcuni secoli prima, il castello medievale. Tra gli elementi sopravvissuti dell'antico castello si individuano una piccola cisterna, recentemente interrata, ed il basamento di una torre medievale, presumibilmente la stessa che compare, ancora in elevato, nelle antiche raffigurazioni del castello. Un inventario del 1578 documenta le armi presenti nel mastio: un cannone di grande potenza, detto "el Sole", un mezzo cannone, un sagro, e tre falconetti o mezzi sagri. All'interno del mastio si trovava il corpo di guardia, dove erano collocati tre letti per i soldati, mentre vicino ad esso risiedeva il luogotenente. All'interno del mastio, protetto da una tenaglia, venne realizzato il deposito delle munizioni, in diretta comunicazione con una soprastante piattaforma. Tra le case, adoperate come alloggi dai militari, si evidenzia un piccolo campanile, che sorregge una campana in bronzo fatta fondere nel 1454 per iniziativa di Iacopo Malaspina, al quale si devono le prime trasformazioni residenziali del castello di Massa. (tratto da "Castello Malaspina di Massa guida storico-architettonica", Massa 2003 - testi di Nicola Gallo e Silvano Soldano)
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