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Confronti
Mostra collettiva
Palazzo dei Sette, Orvieto (TR)
14-29 novembre 2009
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La mostra è patrocinata dal Comune di Orvieto
UN MIO PARTICOLARE RINGRAZIAMENTO VA AL SINDACO DI ORVIETO, ANTONIO CONCINA, PER LA DISPONIBILITA' DIMOSTRATA E PER LA SIMPATIA CON CUI SI E' PRESTATO AD INTERVISTARE GLI ARTISTI PRESENTI. IL VIDEO SARA' PRESTO ON LINE
PER I VISITATORI DELLA MOSTRA E' STATA PREDISPOSTA UNA CONVENZIONE (20% DI SCONTO SUL MENU' ALLA CARTA O MENU' FISSO A 20 EURO) CON IL RISTORANTE "DUCA DI ORVIETO", SPECIALIZZATO NELLA CUCINA STORICA E DELLE TRADIZIONI ORVIETANE. VIA DELLA PACE, 5. TEL. 0763-344663. ANDATE A NOME NOSTRO E BUON APPETITO!
Artisti selezionati: David Agenjo (ES), Gennaro Barci (I), Fiore Cagnetti (I), Roberta Cervelli (I), Gianni Depaoli (I), Alessandra Ferretti (I), Sylvia Loew (BR), Letizia Marabottini (I), Marco Marcarelli (I), Petra Mattes (D), Alfredo Pompilio (I), Carlos Santana (ES), Michele Senesi (I), Massimo Spinelli (I).
Ad un anno di distanza dalla mostra “Scent of a woman. Profumo di donna”, ho deciso di tornare al Palazzo dei Sette di Orvieto con una collettiva internazionale in cui, anziché indirizzare gli artisti verso una tematica comune, ho lasciato che fosse il caso a scegliere le opere al posto mio. È così che nasce “Confronti”. Ho annunciato l’inizio delle selezioni per la mostra senza dare indicazioni di sorta, mi sono seduta ed ho aspettato che gli artisti mi proponessero le loro opere. Quello che ne è scaturito, frutto di una cernita che però ha riguardato solo ed esclusivamente una questione di qualità e non di soggetto trattato, è un insieme di venticinque opere. Il “caso” ha voluto che, a conti fatti, il tema si sia scelto da sé, e da quello che voleva inizialmente essere un confronto tra artisti italiani e stranieri operanti nei distinti linguaggi visivi, si è giunti ad una duplice e contrapposta visione del mondo, all’incessante dicotomia Bene-Male, Luce-Ombra. E siccome mi piace credere, ma sarebbe più corretto dire sperare, che alla fine il Bene trionfa sul Male, ho predisposto l’allestimento della mostra partendo dal Lato Oscuro e chiudendo il percorso con l’immancabile vittoria della Luce. figure 171008 e figure 251008 di Marco Marcarelli, in una sorta di horror vacui stipano corpi umani in uno spazio che non lascia possibilità di movimento. I busti, le braccia, le gambe, gli stessi volti si incastrano nella carne più prossima, facendo letteralmente perdere traccia di sé nell’altro, a sua volta indefinibile perché fuso in un altro corpo ancora, o addirittura in più di uno. Si colgono brandelli di dolcezza, soprattutto nei volti femminili che l’occhio riesce a captare tra l’indistinto magma umano, ma certo ciò che prevale è un senso di non appartenenza, di annullamento, del corpo prima ancora che della personalità. È l’ultimo stadio prima della declassazione umana? Forse stiamo ritornando in quell’argilla che simbolicamente ci ha creato? Anche i titoli delle opere sottolineano ormai l’indistinta natura umana: “figure”, e nulla più. È ancora più aberrante di un “Senza titolo”. Inoltre seguono dei numeri. È la data di esecuzione dell’opera, ma piuttosto mi piace leggerla come un insieme di cifre che accomuna tutti quei corpi alla disperata ricerca della propria identità. In fondo la società non ci richiede di identificarci proprio attraverso dei codici, da quello fiscale all’IBAN, dal numero della carta d’identità a quello della carta di credito? Siamo solo un codice. Ma che succede se si cerca di emergere dalla massa informe? Il rischio è quello di essere come “un pesce fuor d’acqua”, e di sentirsi addosso il male di vivere, come una seconda pelle che non ci abbandona mai. La presa di coscienza può diventare agghiacciante. Nel suo Autoritratto (2007), Massimo Spinelli non ha paura di guardarsi allo specchio e rimanere a scrutare l’Ombra. Riprende la struttura tipica delle fotografie da passaporto, quelle che le macchinette agli angoli delle strade e nelle fermate della metropolitana ci consegnano in pochi minuti. Si può persino scegliere lo scatto che ci piace di più. E di certo prediligeremo quello che ci fa sembrare più giovani, che annulla o attutisce quel certo difetto, che insomma mostrerà agli occhi di terzi l’immagine che di noi stessi ci piace riflettere. Invece qui Spinelli, con un’azione di immenso coraggio e di incredibile onestà, mostra a se stesso ed agli altri il demonio che c’è in lui. Le cronache degli ultimi anni ci stanno mostrando vicini di casa, talvolta solo un po’ anticipatici ma nella maggior parte dei casi “brava gente”, che senza motivi apparenti si trasformano in efferati assassini. O mamme che pugnalano o affogano i loro bimbi perché non la smettevano di piangere. Ciò che emerge dal buio cupo fa paura, ma è certamente importante sapere che c’è ed imparare a conviverci, se non vogliamo che di punto in bianco si manifesti con tutta la violenza di cui è capace. L’incomunicabilità è il soggetto che accomuna i due lavori di David Agenjo qui esposti. In Impotence (2008) l’uomo è indistinto come lo sfondo. Il gesto è quello di chinarsi verso lo spettatore, ma i nostri sguardi non si incontrano, perché nonostante gli sforzi e le torsioni il volto rimane in parte lasciato fuori dal quadro. La bocca sembra accennare ad un contatto almeno verbale, ma la mancanza di comunicazione visiva fa naufragare definitivamente il tentativo da parte dell’uomo di agganciare la nostra presenza. Né ci è consentito di raggiungerlo nella sua dimensione. Nel coevo Affliction, invece, viene meno ogni desiderio di contatto esterno, troppo presi a combattere la nostra spasmodica lotta contro quel nemico invisibile che è più dentro che fuori ciascuno di noi. Il busto si dimena e le mani nervosamente aperte indicano un movimento rapido, quasi uno scrollamento a lasciar cadere - o uscire - un ospite indesiderato. È il dolore, simbolicamente il mal di testa, a dar vita al ciclo di lavori di Carlos Santana dal titolo Le Cave (2009), di cui vengono qui esposti due scatti. Afferma lo stesso artista: «Dolor en sólo un lado de la cabeza, náusea, vómito, fotofobia, fonofobia, perdida de la fuerza en las extremidades, mareos... un dolor tan desagradable creado por el más maquiavélico creador de sensaciones, que crece con el movimiento, dilatación de los vasos sanguíneos en cabeza y cuello, desgaste de las células nerviosas en diversas áreas del cerebro. Por si esto fuera poco, este dolor va acompañado de un aura que distorsiona la visión, experimentas una sensación vaga de que las cosas no están como deberían ser, crea infartos cerebrales, perdidas de visión». Il dolore corrode da dentro e nel vano tentativo di liberarsene, il fisico cerca di espellerlo col vomito. Sono immagini forti che non lasceranno indifferente neppure il visitatore più frettoloso o disattento. Tutto intorno è sfacelo. Le mura recano anch’esse le tracce della lotta, reale o immaginaria che sia. Prese a pugni o a testate, o solo percepite decadenti da una mente che ormai, in preda al dolore, distorce persino la realtà. Solo una benda nera sugli occhi, l’isolamento totale da tutto e da tutti, ed il silenzio, esterno ed interiore, potranno ridare tranquillità, riportare all’ordine. Un atto di speranza? Dipende dalla sensibilità di chi guarda. Ma la scelta di coprire quegli occhi con una benda nera non può non far scaturire altre chiavi di lettura. Anche nell’opera di Alessandra Ferretti, Messa a fuoco (2009), prevale il male di vivere. Lo sfondo della tela è omogeneo, di un blu lapislazzulo che in passato non solo sarebbe stato sinonimo di ricchezza, ma soprattutto colore celeste, ovvero divino, per antonomasia. Ora invece esso fa da cornice ad un volto sbiadito, realizzato a campiture larghe, rapide e sfuggenti, nudo del rimanente corpo. Un volto umano ormai privo di qualsivoglia riferimento fisiognomico, forse un autoritratto all’origine, anche se è impossibile distinguervi una sessualità, ma che certamente affiora come un fantasma sulla tela. Come non leggere un rimando alla genialità di Francis Bacon? Con Michele Senesi il riferimento ad alcuni grandi nomi della storia dell’arte del Novecento si fa ancora più palese. La sua produzione è improntata su una sorta di omaggio a Robert Rauschenberg, Mimmo Rotella ed Andy Warhol. Partendo da ricerche formali diverse, e con distinti punti di arrivo, ciascuno di loro si è confrontato con la riproducibilità dell’immagine, con la sua decontestualizzazione e con la certezza che la forza massmediale è l’unica in grado di creare miti, prendendo spunto dallo stesso mondo dell’arte, del cinema hollywoodiano, dello sport e della politica. Il rovescio della medaglia è che tali immagini non vengono più accompagnate dalla forza delle azioni e delle parole delle persone ritratte, ma divengono immagini tout court, date in pasto ad una società che compra, consuma e butta via, fin troppo spesso senza aver neppure consumato fino in fondo. Giant (2009) diviene così un ricordo ormai sbiadito del Maestro tra i Maestri del Novecento. Pablo Picasso, come Elizabeth Taylor citata soltanto attraverso una scritta sullo sfondo, è ormai solo un nome che, pur noto a tutti, in realtà la massa non conosce che superficialmente, per “sentito dire”. Perché questa è l’era della superficialità e della frammentarietà - di qui il motivo dello strappo e del collage – dell’informazione: tante le immagini e le notizie che ci bombardano, ma nessuna sviscerata a fondo. Ed è anche l’era della violenza. La coeva Men can live without kill other men è lo specchio di una società votata all’autodistruzione. Con l’opera di Letizia Marabottini, Stazione Termini (2007), l’attenzione si sposta solo apparentemente dall’uomo allo spazio urbano. Alcuni edifici del complesso della stazione romana vengono catturati dall’obiettivo e visti al di qua di una superficie di vetro, sporca e segnata dalla pioggia. Ne deriva una visione parziale, sfocata, che allude allo sguardo, rapido e frugale, che il movimento del treno impone ai suoi viaggiatori attraverso i finestrini. La stazione come luogo di passaggio, come gran parte delle nostre città, che sempre più spesso ci apprestiamo a percorrere in lungo ed in largo, di fretta, senza che il particolare di un’architettura, un’intensa macchia di colore o, peggio ancora, un altro essere umano, catturino la nostra attenzione. Probabilmente questo scorcio urbano passa contemporaneamente davanti allo sguardo di due persone sedute una al fianco dell’altra, ma anziché divenire spunto di colloquio, stimolo di conversazione, rimane solo un’immagine isolata in mezzo a tante altre. Momento di passaggio per chi arriva e chi parte, in realtà la stazione diviene sinonimo di un luogo vissuto distrattamente. Vissuto a metà. Gennaro Barci ci porta verso una dimensione aulica, dello spirito. Le sue installazioni create appositamente per questa mostra e costituite da fogli in plexiglass, per loro natura trasparenti e quindi carichi di rimandi all’idea di eterea leggerezza, divengono il simbolo di Verità che solo rari momenti di elevazione spirituale possono rendere manifeste. Il colore, ottenuto attraverso un complesso procedimento di spersonalizzazione, rimane catturato nel plexiglass e simbolicamente sospeso in aria. In Spiritual (2009) i due elementi centrali si rincorrono e si avvolgono l’uno attorno all’altro come in una danza, mentre tutt’intorno brandelli spigolosi ed irregolari, dapprima dipinti e poi rotti, alludono alla contingenza del reale. Laddove questo separa, l’Amore accomuna ed unisce. Con Inside a dream (2009) Barci affronta un tema che da sempre affascina l’uomo, ovvero il sogno. Se Shakespeare ne La tempesta scrive «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», e Wim Wenders nello straordinario Fino alla fine del mondo (1991) inventa una macchina in grado di trasformare i sogni in immagini ed immagazzinarle, Barci ne rappresenta l’essenza sotto forma di guizzi di colore blu che sembrano galleggiare nell’aria, e che diventano di un colore più intenso man mano che ci si avvicina al centro, forse da intendersi come la coscienza. È lì che nascono i sogni? E proprio preziose e delicate come i sogni sono le opere di Roberta Cervelli qui esposte, non a caso definite “paesaggi interiori” dalla stessa autrice. Fuori dal tempo (2007) esprime, già dal titolo, una condizione che l’essere umano vive nel momento in cui riesce a svincolarsi dalle costrizioni (spazio,aggiungo io)-temporali in cui versa quotidianamente. La materia trasborda verso l’esterno, appropriandosi di una superficie - e quindi di una realtà - “altra”. Nel coevo Passage #1 l’idea della preziosità dei materiali si fa più incisiva, grazie soprattutto al rimando all’elemento aureo, che sebbene lasci intuire un passato di designer d’interni, deriva in realtà dalla sublimazione di materiali di riciclo, quali legni, carte, metalli e plastiche, che da elementi di scarto della società moderna, ne divengono rappresentazione del suo superato dualismo. Anche le opere di Petra Mattes, nel loro essere aniconiche, vanno oltre la realtà apparente delle cose che ci circondano, attingendo direttamente alla coscienza. Jackson Pollock affermava: «The painting has a life of its own», verità che l’artista tedesca ha fatto propria. Impossibile stabilire a priori cosa comparirà sulla tela, perché il risultato finale non è guidato dalla razionalità, ma è piuttosto il frutto di un viaggio interiore. In tal modo qualsiasi suggestione vissuta consciamente, quale l’incontro con una persona, un dialogo, un odore, l’ascolto di una musica, ma potrei andare avanti all’infinito, può essere sviscerata nel nostro Io più profondo al punto di diventare un’esperienza sublime e sublimata, che ha ormai perso ogni evidente contatto con ciò che l’ha generata, ma che apre le porte verso percezioni più intime e profonde. Nella ricerca di Gianni Depaoli c’è un uso specifico di materiali di recupero, non solo a dimostrazione del fatto che la sensibilità umana ha il potere di far nascere la poesia dai suoi stessi rifiuti, ma soprattutto per indicare a tutti noi una giusta via da seguire, verso un nuovo ed impegnato rispetto nei confronti del mondo naturale con cui condividiamo la vita su questo pianeta. Blob (2009) fa parte di un ciclo di opere bidimensionali caratterizzate da medesime dimensioni e cromia, che verte sull’arancio. Qui il materiale poliuretanico, annoverato tra i prodotti più inquinanti della moderna industria, diventano un’incredibile fonte di ispirazione. Trattati alla stessa stregua degli inchiostri e degli olii, egli li fa rivivere e rigenerare sulla tela, sublimandoli. Il discorso si fa più perentorio in Sopravvivenza (2008), in cui le lattine aperte ed il metacrilato divengono rispettivamente sinonimo di aria ed acqua. Saranno queste le uniche ricchezze del futuro, se è vero che, non essendo rigenerabili, quando scarseggeranno si innescherà un’immancabile corsa alla loro conservazione e razionamento. «Speriamo per tutti…», afferma l’autore. Con Fiore Cagnetti ci spostiamo invece in tutt’altra dimensione, che benché intrisa di suggestioni oniriche, in realtà trova ragion d’essere in una ricerca formale ed iconografica che può essere letta in chiave preraffaellita. La fata di ambra silvana (2009), attraverso la delicata ed idealizzata bellezza della figura femminile, si fa portavoce di un rinnovato sodalizio tra Uomo e Natura. I capelli creano un tutt’uno con le foglie e le bacche, come una nuova Dafne che accoglie in sé la trasformazione, anche se qui la volontà di assimilarsi al resto della Natura è spontanea, e non vincolata da un’aggressione esterna, come quella perpetrata da Apollo. Fatina sotto le foglie (2007) sembra derivare dall’Ofelia (1852) di John Everett Millais, ma forse è più una suggestione mia che l’effettivo intento dell’artista. Ma se la protagonista shakespeariana è morta ed il suo corpo galleggia lieve sulle acque del Tamigi, qui la bambina è ben viva, ed il fatto di essere sommersa da foglie autunnali ne fa la fatina del bosco. Come nella cultura celtica, ella diviene la rappresentazione dello spirito del bosco, e quindi della Natura. Viene da chiedersi come mai tanta bellezza ed armonia necessitino di una realtà così distante dalla nostra per essere espresse; forse c’è bisogno di rifugiarsi in un ideale mondo passato per riuscire a sopravvivere in uno che, di bello ed armonioso, ha davvero poco. Il percorso si chiude con i lavori di Sylvia Loew, due sculture in marmo di Carrara, materiale nobile per eccellenza che implica una rappresentazione altrettanto aulica, per soggetto o per valori in esso contenuti. Ed infatti Una copia (2009) prende le mosse dalla scultura classica, mostrando un ideale di bellezza femminile ancora pudico, che raffigura due figure dal busto e dai seni scoperti, in cui la perfezione del corpo è sinonimo di una mente - e di un’anima - altrettanto sana («mens sana in corpore sano», sosteneva Giovenale). Untouchable (2008), infine, mostra una donna dalle proporzioni perfette che però rispetto alla statuaria classica mostra un’evidente voluttà, sottolineata dalle rosse labbra che spezzano la candida purezza del marmo. Anche la pettinatura ci riporta ai giorni nostri, abbandonate le morigerate acconciature della classicità. Mi piace leggere l’opera come un omaggio alla donna, una sorta di Venere Terrena, personificazione eterna dell’Amore. A conti fatti nella sensibilità degli artisti sembra prevalere un senso di disagio, se non addirittura di rottura, con la società. Corpi martoriati, sguardi assassini, perdita dei valori positivi. L’unico modo per evitare di cadere nella trappola sembra essere quello di rifugiarsi in sé stessi o in un passato ormai mitizzato, un’Età dell’Oro che, in cuor nostro, dubitiamo di riuscire a ritrovare. Adelinda Allegretti Como, 6 novembre 2009
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