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Scent of a woman. Profumo di donna
Mostra internazionale a tema - Si ringrazia per la collaborazione la New Artemisia Gallery di Bergamo
Palazzo dei Sette, Orvieto (TR)
30 novembre - 18 dicembre 2008
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CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI ORVIETO
PER I VISITATORI DELLA MOSTRA E' STATA PREDISPOSTA UNA CONVENZIONE CON IL RISTORANTE "DUCA DI ORVIETO", SPECIALIZZATO NELLA CUCINA STORICA E DELLE TRADIZIONI ORVIETANE. VIA DELLA PACE, 5. TEL. 0763-344663. ANDATE A NOME NOSTRO E BUON APPETITO!
Artisti selezionati: Francesco Bubba, Paola de Santis, Guido Maria Filippi, Elisabetta Frameglia, Claudio Giulianelli, Tamara Kakysheva (RUS), Sebastiano Longaretti, Stefania Mainardi, Claudia Melotti, Beppe Pepe, Francesca Pierattini Rossello, Angela Policastro, Annalisa Riva, Marcella Rizzi, Ermelinda Romeo, Alessandro Svizzeretto, Valeria Tomasi, Aurora Zharra.
Il Palazzo dei Sette di Orvieto ospita una mostra dal titolo “Scent of a woman. Profumo di donna”, a cura di Adelinda Allegretti, un omaggio a tutto tondo alla figura della donna. Se ne vuole indagare il peso nella società contemporanea: mamma, manager, velina, casalinga o professionista, alla costante ricerca di un ruolo che ne sottolinei l’indipendenza dalla figura maschile, ma contemporaneamente, con leggerezza, omaggiarne la bellezza ed il fascino. A tal proposito è stato chiesto a 18 artisti di affrontare tale tematica in totale autonomia di stile e linguaggio. L’esposizione si terrà dal 30 novembre al 18 dicembre 2008 presso gli spazi di c.so Cavour 87, e si snoderà attraverso i locali dell'Atrio coperto e delle sale adiacenti, situate in corrispondenza dell’ingresso al Palazzo dei Sette. In concomitanza con la mostra, presso l’Atrio coperto del Palazzo, la Libreria dei Sette – Mondatori ospiterà due incontri letterari. Presenti gli autori: - Domenica 7 dicembre, ore 17: presentazione del libro “Vaffanbanka” di Marco Fratini e Lorenzo Marconi - Rizzoli editore. Interverrà anche il prof. Mario Morcellini, preside della facoltà di Scienza della Comunicazione presso l’Università “La Sapienza” di Roma. - Sabato 13 dicembre, ore 17: presentazione del libro “Inchiesta sul Cristianesimo” di Corrado Augias - Arnoldo Mondadori editore. Testo tratto dal catalogo*: La donna è un animale né saldo né costante; è maligna e mira ad umiliare il marito, è piena di cattiveria e principio di ogni lite e guerra, via e cammino di tutte le iniquità. Sant’Agostino
Che cosa sarebbe l’umanità, signore, senza la donna? Sarebbe scarsa, signore, terribilmente scarsa. Mark Twain
Si potrebbe iniziare da qui, da due visioni antitetiche che ben sintetizzano come la figura della donna, per taluni fonte di peccato per altri salvifica, sia da sempre stata caricata di valenze molto distanti tra loro. E se nella moderna società, almeno in gran parte di quella occidentale, non si guarda più a lei come ad una creatura demoniaca (eccezion fatta per Edvard Munch di cui è ben nota, d’altro canto, la deviata visione maturata nei confronti dell’universo femminino), salvandone pertanto l’essenza, di certo a volerne individuare il ruolo gli animi si fanno nuovamente accesi. Nella vita di ogni donna prima o poi arriva il momento in cui qualcuno sentenzia che se si rimanesse in casa a preparare il pranzo, ad accudire i figli ed a rammendare i calzini bucati il mondo girerebbe meglio. È davvero ancora solo questo il ruolo della donna oggi? O c’è dell’altro? E quale immagine prevale? Della donna sexy, della mamma o della compagna di vita? Della donna debole o di quella indipendente? Superficiale o pericolosamente introspettiva? Accomodante o niente affatto disposta a mettere in secondo piano le sue esigenze? L’ho chiesto ad una quindicina di artisti, o poco più, con dei risultati che in alcuni casi hanno sorpreso anche me. Naturalmente il primo aspetto emerso è stato la sensualità. Che si tratti del punto di vista maschile o femminile, dire donna equivale a dire eros. Mani sui fianchi, ad ostentare piena sicurezza di sé, la donna di Beppe Pepe, lontana da ogni intento volgare, è piuttosto l’incarnazione del perfetto oggetto del desiderio, come il corsetto di vittoriana memoria che indossa, indumento di seduzione per antonomasia debitamente e civettuosamente lasciato slacciato. E la pennellata, più guizzante nello sfondo, si fa più attenta e lenticolare nella descrizione dell’allacciatura e della pelle. Anche Gambe di Angela Policastro è interamente giocato sulla seduzione, nella scelta del soggetto quanto nella stesura cromatica, attraverso l’esclusivo utilizzo dei colori primari, giallo, rosso e blu. Il gesto lento diviene la scusa per indugiare sulle lunghe gambe svettanti su vertiginosi tacchi a spillo, in un taglio fotografico voyeristico che, come nel caso della pin up di Pepe, lascia volutamente fuori campo il volto (o sarebbe meglio dire il cervello?). Non credo volesse essere una critica, semplicemente un close up sull’armonia delle forme femminili. Maliarda e di una bellezza più sottile e raffinata, meno urlata ma ben più avvolgente, è Mia di Sebastiano Longaretti. Viene da chiedersi se Mia sia solo il nome della modella o se, piuttosto, vi sia da parte dell’artista l’intento di giocare su quello che è stato l’assunto (Io sono mia!) gridato in piazza da un’intera generazione. O piuttosto solo “sua”, di colui che firma l’opera? Quel che è certo, Mia incarna un ideale di elegante seduzione (è una pelliccia quella che la ricopre?), degna erede di Valentina, mito di Guido Crepax, ma forse meno di lei disposta a concedersi. Nel dittico di Annalisa Riva, dal titolo Seni, invece, la fisicità, ma forse sarebbe più appropriato il termine “carnalità”, è il punto di partenza per raggiungere lidi di profonda sublimazione. L’impronta reale dei seni si rivela solo un pretesto per dare vita ad un’opera dal gusto pressoché informale, in cui prevale un’aura di sacralità. Nella perdita dell’immediata riconoscibilità oggettiva ed oggettuale, che concettualmente deve molto alle Antropometrie di Yves Klein in cui le modelle, nude ma coperte di colore, lasciavano l’impronta dei loro corpi sulla superficie bidimensionale della tela come fossero esse stesse dei pennelli, i suoi Seni assurgono a divenire vere e proprie epifanie. Come impreziositi ed avvolti da un nimbo, i seni si innalzano qui a simboli sacri, dispensatori di quel “primo cibo” assunto da ogni essere umano. Non siamo poi così distanti dalla medioevale iconografia della Madonna del latte; lo scarto, semplicemente, consiste nel riconoscere l’atto dell’allattare come un momento sacro per qualsiasi mamma e, quindi, di continuare a guardare il seno -e la donna- come ad una fonte dispensatrice di vita. Il nostro percorso sembra essere giunto al giro di boa, al punto di non ritorno. Il corpo nudo non è più il mezzo per un gioco erotico, ma fonte di vita. Nel trittico Big Bang di Elisabetta Frameglia è racchiusa tutta la magia del concepimento umano. Evidente il parallelismo tra l’universo ed il ventre materno, entrambi intesi come luoghi in cui, a partire da una prima scintilla, si è generata quella cellula ancora e sempre unica ed irripetibile. Sarebbe banalmente riduttivo leggere nella sua opera degli spermatozoi in gara tra loro; sono segni guizzanti, vibranti, carichi di energia, che si muovono in un apparente Caos, senza seguire un preciso rigore logico. È il mistero della vita. Ma anche della creatività. Ed ancora di creazione parla Mater di Francesca Pierattini Rossello. Un’opera complessa, a partire dalla struttura, ottenuta sovrapponendo ed incastrando tra loro tele di diverse dimensioni, a cui si aggiungono tasselli di puzzle e frammenti di specchi, a moltiplicare i punti di vista. Essa vuole essere una rappresentazione simbolica dell’universo femminile, come afferma l’artista: “…così come siamo noi donne, mai ferme, sempre curiose di cogliere ogni opportunità di cambiamento e pronte l’istante successivo a pentirci di aver osato, poi ancora felici...”. Un tessuto rosso si incunea a forza nella tela, quasi spaccandola; esso rimanda alla placenta “ripiegata su se stessa, miracolo ormai compiuto, che culla, abbracciandolo dolcemente, il suo frutto”, al dolore del parto come conditio sine qua non della vita, in cui madre e figlio lottano e soffrono all’unisono. È ancora una lacerazione quella che domina Morte apparente di Ermelinda Romeo, ma anziché essere legata al concetto di maternità, si fa emblema di una trasformazione interiore, che porta l’essere umano ad una nuova-nascita, una ri-nascita appunto. La chiave di lettura può essere duplice, spirituale o puramente emotiva, ma di certo simbolica nel riconoscere che dal buio dello sfondo, attraverso “squarci e lacerazioni”, si giunge “ad un nuovo mondo, a una nuova vita di colore”. Lo sfondamento, il passaggio attraverso le tenebre, è quindi uno step necessario, l’ultimo sforzo prima della luce. La parete come l’utero, i capelli ancora intrisi di materiale vischioso: è la nascita del nostro nuovo Io che deriva dal superamento delle paure e delle incertezze. In Destino di donna, ancora un’opera della Pierattini Rossello, tornano le tele sovrapposte e l’uso del tessuto, ma questa volta per lanciare un messaggio di rivalsa all’intero universo femminino. È l’orologio-vagina dorato che seduce ed al contempo tutto inghiotte, “parossismo assurdo dell’esistenza di noi donne, amanti, mogli, madri, infermiere, insegnanti, manager… E dopo?”. Cos’altro pretenderà da noi la moderna società? Questo vuole solo essere “un monito, un messaggio a tutte le donne: riprendiamoci il nostro tempo! Non dobbiamo dimostrare niente a nessuno. Impariamo ad amarci davvero. Il serpente che vuole carpirci è soltanto dentro di noi”. In fase di organizzazione di questa mostra non avevo pensato, a dir la verità, di includere soggetti sacri. Ma poi Tamara Kakysheva mi ha sottoposto la sua Adorazione dei Magi. A quel punto, e solo allora, mi sono resa conto che sebbene anni ed anni di studio della storia dell’arte e di iconologia mi avevano facilitato nella sovrapposizione dei Seni della Riva alla Madonna del latte, in realtà avevo stoltamente tralasciato “la” donna per eccellenza, quella davanti alla quale almeno da due millenni re e pastori continuano a genuflettersi. Curioso che a ricordarmelo sia stata un’artista russa, ed ancor più curioso il fatto che a presentare l’unico dipinto propriamente sacro sia stata la sola pittrice straniera partecipante alla mostra. Anche alcuni degli artisti italiani, lo abbiamo visto, hanno evidenziato l’aspetto della maternità, ma neppure uno di essi lo ha fatto attraverso la figura della madre di Gesù. Che la nostra società sia più laica di quanto sembri? O che certi valori si mantengono più radicati nelle società meno cosmopolite e più arroccate a protezione delle proprie tradizioni? Certo è che la nostra ne ha persi davvero molti. Comunque non voglio certo tacciare la Russia di arretratezza; semplicemente, mi chiedo se questo stesso tema, proposto in Francia o in Germania, avrebbe dato un risultato accomunabile al nostro. Di qui al rapporto con la preghiera il passo è breve. Ad affrontare il tema ci ha pensato Paola de Santis con il suo trittico raffigurante Emanuela, Giovanna e Dolores, parte di un progetto ben più complesso ancora in fieri. Tre donne per altrettanti distinti modi di vivere l’unione con il divino. Quale Dio pregano? Solo in un caso ci è dato saperlo. Ci sono aspettative nei loro animi? Le mani e lo sguardo di ciascuna di loro sono carichi di silenzio ed introspezione, speranza e fiducia nel futuro, ma anche certezza assoluta nella fede, nonostante i segni che la vita ci ha impresso addosso. Dall’Amore per Dio a quello terreno (anche gli antichi distinguevano tra Venere Urania e Venere Pandemos), esso rimane pur sempre la più elevata arma salvifica a disposizione dell’umanità. In Essenza Aurora Zharra ne esprime appieno il concetto. Due giovani amanti corrono l’uno verso l’altra, unendosi in un abbraccio pudico. Sono leggiadri, tanto da muoversi a passo di danza. Lo sfondo indefinito e la pennellata fugace li isola dal resto del mondo. La composizione è aulica, piramidale, ed i corpi sono anch’essi espressione di perfezione ed armonia. Viene da interrogarsi circa il perché l’artista abbia limitato l’intervento cromatico a pochissime tonalità, e di conseguenza se l’incontro tra i due amanti non sia piuttosto frutto di un’idealizzazione, al massimo di un ricordo. È un amore terreno e carnale, invece, quello raffigurato in Abbraccio. I corpi sono avvinghiati, legati l’uno all’altro in una morsa che quasi li lascia ormai indistinti. Ciò che appare invece chiaro è il gesto accogliente della donna, lo spasimo del suo volto. Amore è sofferenza. Amore terreno non è tuttavia soltanto sinonimo di un legame fisico, di atto amoroso tout court. Alessandro Svizzeretto attraverso A.A. 88 riporta l’attenzione su ben altro legame, ovvero quello indissolubile tra madre e figlio, spostando così l’attenzione nuovamente sul ruolo femminile all’interno della società e della famiglia. Abbandonati pizzi e tacchi a spillo, qui la donna ostenta quella sobrietà che si richiede ad un’educatrice, che necessariamente deve tramandare sani valori. L’abito nero si contrappone a quello vivace e colorato della bambina, felice di mostrare il suo palloncino al papà, che immaginiamo come unico possibile esecutore dell’opera, nella sua valenza di foto ricordo, in grado di fissare sulla tela i ricordi, l’odore e gli umori di una giornata trascorsa sul lungolago con la famiglia. Tanto ricca dal punto di vista cromatico appare quest’ultima, quanto interamente giocata sui toni del grigio la sua seconda opera presente in mostra, Confuso silenzio. Sullo sfondo di piazza San Marco a Venezia, la donna si concede un caffé mentre legge il giornale. Giovane, bella ed indipendente, come allude la scelta dell’abito, di primo acchito parrebbe essere il ritratto dell’emancipazione femminile. Ma il grigiore incombe, nonostante quelle che volteggiano nel cielo sembrino rondini e niente affatto piccioni, segno che il tutto avviene in una giornata primaverile. Perché allora così poco colore? Sono pochi gli artisti che hanno rappresentato una delle piazze più belle al mondo, di cui peraltro persino la facciata della basilica è mossa da una miriade di tessere di mosaico riflettenti luce, con una tale assenza di vita. Credo che la chiave di lettura stia nello sguardo incerto della giovane e, soprattutto, nella penna tenuta tra le dita. Sta forse leggendo la pagina degli annunci di lavoro? Se così fosse si paventerebbe un mare di riflessioni circa la difficoltà della condizione femminile nella nostra società: quante sono le laureate senza un’occupazione? E quando finalmente la trovano, rimangono sottopagate rispetto al collega uomo. Spunti di riflessione, nient’altro… Il ruolo della donna continua a rimanere irrimediabilmente segnato, anche in Donna e mare di Guido Maria Filippi. Lo sguardo intriso di nostalgia e rivolto verso le onde apre un immediato confronto con le Dame di Carpaccio al Museo Correr di Venezia. Invano sollazzate dai cani, le due donne veneziane aspettano il ritorno dei mariti dalla battuta di pesca, lontani nella laguna. La nostra figura, sebbene la fattezza dell’abito e del copricapo rimandi ad una collocazione temporale ben più antica, di classica memoria, sembra riflettere uno stesso destino: la donna che, fedele, aspetta il ritorno dell’uomo. Proprio come Penelope, che per rimanere fedele al lontano Ulisse, disfa di notte ciò che tesse di giorno. Finché il lenzuolo funebre del suocero Laerte non sarà completato, lei non sceglierà il nuovo pretendente. Fortunatamente il lieto fine l’ha ripagata di tanto lavoro. Lieto fine che per la nostra figura sembra annunciato da un mare straordinario, mosso da onde che si avvolgono sì su se stesse, ad inghiottire tutto e tutti, ma dai colori vividi ed intensi, caldi. Un mare che dispensa vita più che morte. In Profumo di donna di Francesco Bubba una giovane, visibilmente incinta, attraversa la strada preceduta dal suo cane tenuto al guinzaglio. Nonostante lo sfondo sia sì colorato, ma privo di riferimenti architettonici ben precisi, è facile collocare l’episodio in un contesto urbano, non fosse altro che per la presenza, sull’asfalto, delle strisce pedonali. Una donna attenta e premurosa, quindi, se si dà la pena di non azzardare un attraversamento in un punto qualsiasi della strada. La necessità di proteggere il futuro nascituro determina le sue scelte. Ma anche una serie di altri elementi ci riconduce a lei come ad una donna che ostenta precisi attributi di moglie. Ritorniamo all’opera di Carpaccio appena sopra citata. I cani accompagnano la giornata, alquanto vuota a dir la verità, delle due dame. Questo perché nell’iconografia tradizionale il cane è, da sempre, simbolo di fedeltà matrimoniale, tanto da essere persino donato come pegno d’amore eterno. Un collare rosso lega il cane alla padrona, colore della passione e, a rischio si sembrare ripetitiva, dell’amore terreno. Quella di Bubba, pertanto, è una donna che ha fatto delle scelte ben precise: essere fedele, proteggere la vita del bambino che sta per nascere, seguire le regole (non solo del codice della strada, ovviamente). Il capo chino con cui si appresta a percorrere la vita è sinonimo di serena accettazione. Dopo tanti doveri non guasterà un po’ di sano gioco, grazie alle Storie ancora da inventare di Claudia Melotti. Costituita da singoli tasselli dipinti, calamitati e montati su un supporto di acciaio, l’opera acquista una sua ragion d’essere nel momento in cui lo spettatore interviene a modificarne l’aspetto iniziale. Spostando le tessere di cui è composta, otterremo una seconda versione, e poi una terza, ed una quarta e così via. Finché ci sarà qualcuno che avrà la voglia di giocare con i suoi elementi, l’opera avrà sempre qualcosa di nuovo da dirci. Al centro, uno specchio, sul quale peraltro è possibile scrivere, grazie al pennarello ed al cancellino di cui è fornito, “riporta allo sguardo ed al sé interiore”, ma permette anche di catapultare la nostra immagine in una dimensione nuova, altra. Forse è proprio giocando che possiamo entrare in contatto con il nostro Io più sublime e leggero. Come sottolinea l’artista, “la narrazione, la flessibilità, la riflessione, la coscienza ed il gioco, la relazione tra diverse realtà e punti di vista, sono parti importanti della sensibilità femminile e di questo lavoro”. Sebbene Enigmi di Marcella Rizzi non possa essere definita un’opera espressamente ludica, nel suo paragonare la donna al gatto, animale domestico tra i più curiosi ed al contempo indipendenti, la figura femminile diviene sinonimo di seduzione sì, ma gioiosa e “giocherellona”. E se il cane è l’amico fedele dell’uomo, dono del marito alla moglie in virtù del significato di fedeltà coniugale di cui è insignito, il gatto è il compagno fedele della strega. Chi non ricorda Kim Novak ed il suo inseparabile felino nero in Una strega in paradiso? Indomabile, bizzarro, bisognoso di attenzioni, vendicativo, affettuoso quasi sempre solo col padrone, il gatto sembra essere il perfetto corrispettivo animale della figura muliebre. Non propriamente una strega, ma certamente un’inquietante ammaliatrice, è la donna che troneggia ne Il campo di grano di Claudio Giulianelli mentre mostra un burattino seduto sul parapetto di un’apertura, offrendo così una visuale su un paesaggio dai toni dorati, secondo un’iconografia che deve molto alla pittura veneta rinascimentale. La donna calza un copricapo bizzarro, che solo lontanamente ricorda quello di un giullare di corte. Ma la sua espressione è seria, anzi, non ci permette di carpire alcun tipo di emozione e, contrariamente al burattino, che invece sorride apertamente, lei fissa silente lo spettatore. A ben guardare, però, il burattino sembra afferrarle il dito. Nel contesto di questa mostra mi piace leggere questa donna come una maga, una strega, un’alchimista, perché no, che riesce a far compiere all’uomo-burattino qualsiasi azione lei desideri. Il nostro percorso sta giungendo al termine e, a giusto coronamento di un’analisi, mi auguro, ricca di spunti e di riflessioni, propongo le opere di Stefania Mainardi e Valeria Tomasi. La prima, con la sua Kore, rimanda all’ideale femminile classico. La giovane, tradizionalmente raffigurata nell’atto di compiere un’offerta alla divinità, sebbene qui mutila dell’arto sinistro e di gran parte del destro, indossa un chitone reso con un effetto di bagnato che lascia ben immaginare le perfette ed armoniose forme sottostanti. È il tipo di rappresentazione aulica per eccellenza, che racchiude in sé concetti di equilibrio ed armonia. Ripartiamo da qui. Ancora a questi concetti alludono le tre figure che in Essenze della Tomasi avanzano con passo elegante e solenne, persino danzante, in un paesaggio boschivo. Vere e proprie ninfe moderne, le tre figure, simbolo di Concordia, personificano la rinnovata alleanza tra la Natura e l’uomo. Creatura dai tanti e contrastanti volti, senza la donna l’umanità, per parafrasare le parole di Mark Twain, sarebbe meno bella. Adelinda Allegretti
Como, 19 novembre 2008
LA STORIA DEL PALAZZO Il Palazzo dei Sette con la Torre del Moro appartenne all'antica famiglia dei Della Terza, poi fu di proprietà del Papato, sede dei Sette, del pontefice e sembra che vi abitò anche Antonio da Sangallo. Nel 1515 Leone X cedette al Comune lo stabile che veniva chiamato torre del Papa e Case di Santa Chiesa e fu sede del Governatore; più tardi fu adibito ad altri usi di pubblica utilità. Dalla prima porta a destra si accede alla Torre del Moro, la cui ascesa si può effettuare a piedi o, parzialmente, con l'ascensore. All'interno sono visibili due campane, una in particolare fu issata nel 1313 e porta impressi sul suo bordo i 25 simboli delle arti e il sigillo del popolo. Dall'altezza di 47 metri, quanto è alta la costruzione, lo sguardo può spaziare dai tetti dell'intera città ai paesi e ai castelli del suo territorio. Il nome della Torre del Moro ha perso nei secoli il suo originario riferimento ed è stato variamente interpretato nel corso del tempo; si è pensato a lungo che la denominazione derivasse da un moro gelso che aveva prosperato nell'atrio della costruzione; alcuni studiosi hanno ritenuto che fosse così chiamato per l'insegna del moro, o saracino, che vi veniva affissa durante le giostre medievali per essere colpita dai cavalieri; oggi si ritiene che il nome derivi da Raffaele di Sante, detto il Moro, che vi avrebbe abitato nel secolo XVI e dal quale traeva la denominazione. Sull'angolo di via della Costituente in una lapide si legge la terzina dantesca del Purgatorio dove, in riferimento alle lotte tra casate e partiti, Dante Alighieri nomina accanto ai più celebri Montecchi e Capuleti di Verona, i Monaldeschi e i Filippeschi di Orvieto.
Ingresso libero
*per acquistare il catalogo, in vendita a € 10,00 + spese postali, compilare l'apposito form alla voce "Contatti" del sito.
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