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Landscape (inside and all around me)
Mostra collettiva internazionale a tema
Sigtuna Kulturgaard, Sigtuna (Svezia)
6-28 settembre 2014
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Artisti selezionati: Michele Angelillo (I), Susana Diaz Rivera (MEX), Maria Fatjó Parés (E), Carlo Guidetti (I), Stefan Havadi-Nagy (D), Henriëtte Kros van de Water (NL), Beate Kulina (D), Pablo Márquez (MEX), Joy Moore (UK), Gaby Muhr (A), Mitsushige Nishiwaki (J), Rosanna Orsini (I), Antoinette Pallesi (F), Dayan Prado Bravo (CU), Siegfried Pichler (D), Ingeborg Saes (D), Laurence Steenbergen (NL), Josefina Temín (MEX), Rita Vitaloni (I)
L’idea di questa mostra è nata diversi anni fa per uno spazio espositivo di Tivoli, in provincia di Roma, ma come a volte accade problemi logistici ne hanno rallentato l’organizzazione e quando si è presentata l’opportunità di esporre in Svezia, il tema precedentemente accantonato mi è sembrato subito perfettamente in linea con quello che nell’immaginario collettivo il Nord Europa rappresenta, ovvero ampi spazi incontaminati che, consapevolmente o meno, non possono non creare quel giusto “vuoto” necessario per guardarsi dentro e scoprire le infinite terre del nostro più profondo Io, di cui l’ammirazione ed il rispetto per il paesaggio esteriore non è che un primo, obbligato passo. Partire dall’esterno, quindi, per approdare all’interiorità. Come sempre nel mio modus operandi l'input iniziale è dato da un titolo, ma la vera ricchezza è il modo in cui ciascun artista lo interpreta e, nel caso specifico, cosa è prevalso di fronte all’idea del paesaggio: ora la Natura, ora la città, ora quel mondo misconosciuto e fin troppo poco battuto che vive dentro di noi. Le parole che seguono sono per quanti si faranno prendere per mano ed accompagnare attraverso una lettura critica (anche questa “limitatamente” personale, la mia) che sia in grado da un lato di aiutare la comprensione dell’opera, ma dall’altro di suscitare dubbi e porre/porsi domande. Un paesaggio che rimanda allo spettatore un’idea di tranquillità ed assoluto silenzio è quello ritratto dall’artista olandese Henriëtte Kros van de Water. Sia in Biesbosch zonsondergang (2006) che nel più recente Biesbosch (2013), lo scorcio paesaggistico è privo di qualsivoglia presenza umana o animale, ma quasi si percepisce il delicato scorrere dell’acqua ed il fruscio della vegetazione. L’utilizzo del pastello non fa che ingentilire ancora di più una visione già idilliaca; inoltre la luminosità del cielo che si riflette sulla superficie liquida si carica di significati simbolici che rimanda ad una visione panteistica della Natura. Una sacralità che è insita in Lei. Anche da Eindringendes Licht (Light penetrating) (2011) del tedesco Siegfried Pichler promana un forte senso di sacralità. La luce è accecante e si fa strada tra gli intricati e folti rami degli arbusti che sono gli altri protagonisti dell’opera. Un paesaggio rigenerante, che infonde forza vitale sin dal primo, superficiale sguardo e che ci invita a lasciarci andare, a varcarne la soglia (per alcuni di noi insormontabile, per altri estremamente relativa). Non potrebbe l’Eden avere tali sembianze? C’è tutta la maestosità, la perfezione e la ricchezza del creato anche nell’opera del tedesco Stefan Havadi-Nagy, Filigree (2011). Gli alberi si stagliano alti nel cielo, come dei giganti, ma al contempo sono eleganti, leggeri, come un gioiello in filigrana, appunto, preziosissimo e delicato. La bellezza della natura è anche il leit-motiv dell’opera di Pablo Márquez, che con Baja (2011) ci regala uno scorcio mozzafiato del suo Messico. L’azzurro incontaminato del mare che fa impallidire persino il cielo fa da contraltare all’aridità del terreno o meglio, il nostro sguardo è talmente appagato dallo spettacolo marino che la povertà del suolo passa completamente in secondo piano. Allo stesso modo Kerry, Irelande (2014) dell’inglese Joy Moore, ormai italiana d’adozione, incanta lo sguardo e l’anima, grazie all’uso sapiente della cromia e ad una pennellata rapida, sicura ed esperta che annienta il particolare ed impregna di ancora maggiore vitalità una terra verde per antonomasia. Nella ricerca della tedesca Beate Kulina la natura ed il paesaggio sono il mezzo per un arricchimento culturale-intellettuale. Come in un moderno Grand Tour, le sue sono tappe di un continuo viaggio, di cui gli acquerelli e gli schizzi ad inchiostro mantengono viva la memoria. Tel-Aviv near the beach (2008) ed il precedente New Zealand 16.06.2002 sono rielaborazioni di appunti visivi dapprima fissati rapidamente su un taccuino e nella mente. Piccole tessere di un mosaico di vita vissuta. Nell’epoca della cultura digitale, affidare i propri ricordi ad un foglio di carta ha il sapore di una ricchezza intellettuale senza pari. In Backstreet (2014) del cubano Dayan Prado Bravo il senso di profonda libertà che permea tutta la sua ricerca artistica si riflette nella mescolanza dei soggetti e delle tecniche. Ragazzi e cavalli nell’incitazione/eccitazione del gioco dominano lo spazio che li circonda e la palma assurge a simbolo di una terra baciata dal sole, sempre calda, in cui la povertà si sposa sempre e comunque con l’allegria. Un paesaggio caloroso ed accogliente, come la sua gente. Si ritrova lo stesso senso di libertà nell’opera della spagnola Maria Fatjó Parés, Las cometas-Kites (2013), già presentata a Los Angeles nell’ambito della mostra “Skies (Nel blu dipinto di blu)”. Qui il paesaggio si riduce ad un angolo di spiaggia ed al blu più o meno intenso del mare e del cielo. Ne deriva un’immagine di allegria e spensieratezza, con le due bambine che si accingono a lasciar andare, leggeri e liberi, i loro aquiloni. Prima di giungere al giro di boa della mostra e rivolgere l’attenzione verso punti di vista più concettuali, è necessario soffermarci sui lavori della tedesca Ingeborg Saes. Truss window (2008) e Cottage (1994) mettono in scena angoli di quotidianità lontani dal caos cittadino. La prima delle due opere esposte, in particolare, fa leva sulla tradizione e l’importanza della sua memoria, perpetuazione e rispetto; la casa a graticcio, infatti, è tipica del Centro e del Nord Europa dal Medioevo all’Ottocento, con le sue travi in legno che rimangono a vista nella facciata. È sufficiente focalizzare l’attenzione sui battenti di una finestra aperta per determinare l’area geografica che l’ha ispirata. Nelle due opere dell’austriaca Gaby Muhr, Cry of hope (2014) ed il coevo Into the sun che in occasione di questa mostra mi piace leggere consequenzialmente, “lo spazio abitato, grigio ed anonimo, completamente asettico, si apre verso un’ambientazione naturale, in cui si scorgono alberi, nuvole, uccelli.” Questo era parte di quanto scrivevo nel catalogo della mostra “Con i fiordi negli occhi. Omaggio all'Urlo di Munch” (Mu.MA Museo del Mare, Genova 2014) in cui soltanto la prima delle due opere citate era esposta. Per questo mi piace approcciare alla seconda tela come ad una naturale prosecuzione, un ovvio sviluppo direi, della prima, col palloncino che offre finalmente la giusta soluzione: la fuga dallo spazio chiuso verso la Natura. Che si tratti di spazio interiore o esterno, ciò che conta è trovare il modo, e questo può accadere solo dentro noi stessi, di muoverci verso un ritrovato senso di libertà. Altra opera già esposta nell’appena citata mostra di Genova è Ansia (2009) della messicana Josefina Temín. Riporto ancora una volta le parole del precedente catalogo: “Realizzata recuperando della corteccia di eucalipto, la scultura non solo mantiene una forma organica, vitale, ma rende perfettamente l’idea della Natura, offesa ed offensiva a sua volta. Al primo sguardo le immagini dell’antro di una caverna, della bocca spalancata di un’orca o di una balena, e della Dionaea muscipula, forse la pianta carnivora che più cattura l’immaginario collettivo, si sono susseguite rapidamente una dietro l’altra nella mia mente. È assolutamente straordinario come della semplice corteccia, se lavorata dalla maestria e dalla sensibilità dell’artista, possa trasmutarsi “in altro”, così carico di pathos e di rinnovato significato.” Perfettamente in linea con l’idea dell’urlo disperato della Natura, Ansia esprime appieno anche un profondo senso di disagio interiore, di quel male di vivere cui l’uomo moderno ormai è fin troppo abituato. Il disagio della realtà esterna e di quella interiore coincidono. Se quel senso di disperazione intimo, profondo, si dipana, allora il pessimismo lascerà il posto alla gioia di vivere ed il nostro paesaggio interiore si trasformerà completamente. Esso diventerà solare, pullulerà di colore, di luce e ci sentiremo curiosi e vivaci. Questo rappresenta ai miei occhi Colors & White (2012) dell’olandese Laurence Steenbergen. La complessità dell’essere umano non può prescindere da un continuo flusso tra le due facce di una stessa medaglia, che talvolta cadrà su quella più buia e talaltra su quella più solare. Ma siamo pur sempre noi. Nelle tre opere della francese Antoinette Pallesi, Il mistero della nascita (2011), Ora segreta e Sottile ora, queste ultime entrambe del 2014, è proprio tale complessità a fungere da trait-d’union. Gli eventi che scandiscono la vita di ciascuno di noi mutano la nostra realtà interiore, che come una telecamera posta sul cofano di un’auto che percorre ora un’autostrada ora una strada di campagna, ora affronta un tornante in alta montagna ora le dune di un deserto, sarà destinata ad assumere forme, colori, sfumature sempre diversi. È in questa stessa direzione che va letta l’opera dell’artista italiana Rosanna Orsini, Landmark (2012). Qui l’eleganza cromatica, la leggerezza delle sfumature ed i segni che attraversano la superficie pittorica sono la rappresentazione di attimi che lasciano intravedere qualcosa che non appartiene al mondo reale, nell’accezione di tangibile, ma a quello che potremmo definire metafisico. In Complessi (2010) di Michele Angelillo, anche lui italiano, il pensiero prende letteralmente forma. L’utilizzo della radiofotografia gli dà lo spunto per rappresentare una moda che nel 2007 si è diffusa a macchia d’olio in Italia, e da qui in altri Paesi, e che, dato che la mostra è indirizzata al pubblico svedese, mi sento in dovere di ripercorrere, altrimenti il rischio sarebbe quello di lasciare incompreso lo stesso significato dell’opera. Il tutto ha avuto inizio col libro “Ho voglia di te” (Feltrinelli, 2006) di Federico Moccia, da cui l’anno successivo è stato tratto un film dal titolo “2007: Ho voglia di te”, ambientato a Roma. Da qui è nato il fenomeno del lucchetto degli innamorati di Ponte Milvio: infatti in una delle scene più celebri del film, la coppia protagonista scrive i propri nomi su un lucchetto legandolo al ponte e buttandone poi la chiave nel Tevere, come simbolo e promessa di amore eterno. Quello che compare al posto del cervello è quindi un insieme di lucchetti, che legano l’uomo, limitandone la libertà. Anche nel coevo Ricerca dell’amore tale grande aspirazione si limita ad un groviglio di scarabocchi. Qui la costrizione del paesaggio urbano riflette un’interiorità complicata, aggrovigliata, che non ha modo di elevarsi. Il lavoro di Rita Vitaloni dal titolo Ciclo continuo (2014) è tratto dalla serie Il colore degli sfrattati. Si tratta di un progetto molto ampio che l’italiana porta avanti da anni e che prende le mosse da uno sfratto subito anni fa e che da allora ha segnato, in negativo, la vita dell’artista e della sua famiglia. Il paesaggio esteriore (ed interiore, aggiungerei) ne risulta buio, sfocato. La casa, che dovrebbe essere un nido, un luogo accogliente e di protezione, appare circondata e vinta da rovi e cespugli, ormai inavvicinabile. Anche la cromia è esasperata, virata fino ad ottenere un aspetto irreale, o forse surreale. Un malessere intimo, interiore, che inevitabilmente segna anche il mondo che ci circonda. E poi, di contro, c’è la città fatta di divertimento e di stupore. Tiger (2012) del giapponese Mitsushige Nishiwaki mette infatti in scena una città d’altri tempi, in cui un enorme cartellone pubblicitario ricorda lo spettacolo esotico, per adulti e bambini, di animali provenienti da paesi lontani. Ma anche un grattacielo può assurgere a icona di bellezza. È quanto accade nell’opera Downtown Los Angeles (2012) della messicana Susana Diaz Rivera, in cui il riflesso crea un movimento continuo e vitale sulla superficie architettonica specchiante. Mi piace chiudere il cerchio di questo percorso ideale con le opere dell’artista italiano Carlo Guidetti, tutte datate 2011. Le sue sono architetture che potrebbero apparire come dei “mostri ecologici”: quasi delle cattedrali nel deserto, strutture enormi, vuote, inutili. Eppure assumono un’aura di sacralità. In Compenetrazione (2011) l’elemento aereo (sono davvero nuvole?) avvolge il mostro, rendendolo incredibilmente suggestivo, quasi meditativo. Lo stesso accade con Verso l’alto, in cui l’idea di verticalità, che peraltro si riflette sui piani come sulla stratificazione atmosferica, rimanda ad un’idea di elevazione ben più profonda, sino ad arrivare a Paradiso. E qui la lettura si fa immediata: davvero abbiamo cercato per tempo immemorabile l’Eden per poi renderci conto che lo abitiamo già? L’Eden è in noi, qualsiasi angolo della Terra ci troviamo a vivere ed occupare. Adelinda Allegretti
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